Fra tutti i briganti che animarono la rivolta nel periodo che seguì l’Unità d’Italia, particolarmente tra il 1861 ed 1864, eccelse per abilità militare, fede borbonica, prodezza ed umanità Giuseppe Schiavone.
Nacque a Sant’Agata di Puglia il 19 dicembre 1838 da Gennaro e Carmina Longo. La sua era una famiglia normale ed onesta che viveva del proprio lavoro e dei frutti della campagna: Gennaro proveniva da una famiglia di artigiani esperti nella lavorazione del ferro, Carmina da una famiglia di solida tradizione religiosa. Da loro nacquero tre figli: Giuseppe, Domenico, Antonio. Quest’ultimo morì in giovane età.
Giuseppe entrò nel servizio militare nel 1860. Disciolto l’esercito borbonico nel febbraio 1861, dopo la capitolazione di Gaeta, rientrò in paese con il grado di sergente. Richiamato al servizio militare, si rifiutò di indossare la divisa piemontese e di servire il nuovo re, Vittorio Emanuele II di Savoia.
Poiché dal mese di settembre del ’61 veniva ricercato dalla pubblica forza, fuggì dal paese e trascorse alcune notti tra i cespugli del torrente Calaggio. Passò di lì, dopo una sosta nel bosco di Rocchetta Sant’Antonio, la comitiva del capobrigante Carmine Crocco detto Donatelli, di Rionero in Vulture, e si associò ad essa.
La sua scelta di brigante gettò la famiglia nello sgomento. I genitori lo invitarono ripetutamente a presentarsi ed al suo fermo diniego decisero di collaborare con la giustizia. La madre non sopravvisse al dolore di avere un figlio brigante. Il governo volle premiare il comportamento dei genitori e del fratello Domenico, dando a costui un posto di guardia municipale nel paese.
Giuseppe Schiavone tentò più volte, ma inutilmente, di contattare la famiglia e mandare denaro. Una volta, si dice a Sant’Agata, tramite il compaesano Leonardo Marino mandò al padre una considerevole somma, che venne respinta. L’intermediario, approfittando del fatto che tra padre e figlio non c’era comunicazione, se ne appropriò (si dice ancora) e perciò il brigante sequestrò il Marino e gli tagliò il lobo dell’orecchio destro. Ma i documenti attestano che il Marino non fu sequestrato da Schiavone, e per il suo sequestro, che fruttò ai briganti in tutto ducati 1292 (lire 5941), furono condannati Crocco, Marciano e Vincenzo Lapia di Frigento ed altri briganti.
Giuseppe Schiavone, don Peppe, come lo chiamavano a Sant’Agata, era cattolico praticante ed aveva sempre con sé l’abitino della Madonna del Carmine. Gli piaceva vestire di fustagno.
Qualcuno lo dice “brigante letterato”, e di lui avevano gran considerazione il sacerdote letterato Lorenzo Agnelli e il poeta avvocato Costantino Volpe, entrambi di Sant’Agata di Puglia. E’ certo che sapeva leggere e scrivere, come attestano i suoi biglietti di ricatto.
Sulla generosità di Schiavone si raccontavano (e qualcuno a Sant’Agata ancora li rievoca) molti episodi. Si dice che proteggeva i suoi compaesani dagli attacchi delle bande di altri briganti come Tortora, Crocco, Sacchitiello, cui estendeva i favori delle protezioni degli amici e delle famiglie ricche di cui lui godeva ampiamente, e che aiutava i coloni poveri e che fece salva la vita a molti.
Molti, si dice ancora a Sant’Agata, si arricchirono speculando sulla sua attività di brigante. Con lui fraternizzavano e facevano causa comune molti tra galantuomini, ecclesiastici, proprietari, contadini, garzoni di masserie di Sant’Agata e di altre località.
Ad ingrossare le fila della sua comitiva, mai inferiore ai quaranta individui (solo in particolari circostanze superava anche i duecento, perché Schiavone preferiva muoversi agilmente e rapidamente con comitive piccole), correvano anche le donne, che vestivano esse pure alla "militare", con abiti maschili, sapendo usare con destrezza le armi e cavalcare come gli uomini agilissimi cavalli.
N.B. Per il testo completo con i riferimenti archivistici e bibliografici vd. D. Donofrio Del Vecchio, Variae. Storia e storie di Puglia, Delta Tre Edizioni, Grottaminarda (AV), 2017, pp. 227-247.
Dora Donofrio Del Vecchio