Legati alla nascita di un bimbo vi erano mille avvenimenti.
Intanto la speranza che la coppia potesse avere dei figli.
Maschio o femmina, l’impórtande ca re còse fóssere sciute bòne a la sgravanne.
Certo che nu bèlle masculóne, trattandosi del primo figlio, sarebbe stato la mèglie cosa, per continuare l ‘arrazza (la stirpe).
Se era maschio, non importava il suo peso; per i genitori era nato na sòrta re cerracchióne.
Se femmina, per quanto grossa o bella, era nata na musciarèrra.
Seguivano le visite di parenti e commare: “Benerìche! Sande Martine! Crisce sande!”
Dove non esisteva alcun problema era per il nome da dare al bambino.
Cito il professor Volpone da “Sant’Agata di Puglia nel tempo” :
“Il nome da dare al bambino o alla bambina era scelto dal padre, che, se maschio lo chiamava come il padre proprio, se femmina, come la madre di lui; perché era l’uomo che per primo doveva mettere la seppónda ( il puntello) ai propri genitori. Questo avveniva anche con il secondo nato, a meno che non fosse nato un altro maschio, allora si dava il nome del padre della mamma del bambino e così anche se si trattava di bambina.
Molte coppie infatti continuavano ad avere figli per realizzare la parità (re seppónda) di puntello per i genitori di lui e per i genitori di lei.”
Questa usanza un tempo era una regola, oggi va lentamente cambiando.
Tanto di cappello, comunque, a chi chiama un figlio come i propri genitori e non come attori americani, il cui nome non lo sanno neppure pronunciare.
Questa foto di gruppo per la chiusura di un cantiere: in basso al centro mio padre a fianco al geometra Lorenzo Palazzo e quello con la bottiglia mastAndònie Bellino (Musullìne)