La pioggia di ordinamenti finalizzati al riordino dell’amministrazione comunale, alla disciplina del servizio, all’igiene pubblica, e la rapidità con cui furono emanati dal podestà Donato Barbato non potevano noncreare disorientamento, nonostante la puntuale informazione con manifesti e bandi.
Qualche impiegato comunale mal sopportò il Registro delle presenze. Il popolo non
ebbe il tempo né la disponibilità ad accettare il cambiamento così repentino che
sconvolgeva inveterate abitudini. Fu vessato da contravvenzioni che, per mancanza di
moneta, rimanevano inevase. Qualcuno, si dice, soffiò nel fuoco e scoppiò la rivolta.
Era il 29 aprile 1928, giorno della festa dell’Incoronata. La piazza era gremitae vi si
trovava anche la locale banda musicale.
Un gruppo di sessanta-settanta individui, alle 17,30, dal circolo “Umberto I” (prima
“Casa del popolo”), di cui era presidente il falegname Vito Sanità, dopo aver prelevato
di lì il quadro del re, del Duce, del generale Diaz, e la bandiera nazionale, al grido “Viva
il re, Abbasso il podestà!” mosse verso il municipio. Il gruppo s’ingrossò man mano che
avanzava, grazie anche alle donne che accorsero numerose. I rivoltosi entrarono nel
Palazzo comunale, alcuni attraverso la porta di servizio che sfondarono a colpi di scure.
Al grido “Abbasso il podestà! Fuori il podestà!” invasero gli uffici, per distruggere, si
disse, gli atti recenti, soprattutto le contravvenzioni. S’impossessarono di lire 898,
ricavato della riscossione delle quote dovute alla locale sezione fascista del I
quadrimestre 1928, di cui il podestà era segretario politico, scassando il tiretto della suascrivania; di lire 417 dalla scrivania del segretario comunale, che erano
dell’Economato. I rivoltosi gettarono dai balconi sulla piazza libri, documenti, sedie,
tavoli, macchine da scrivere e altre suppellettili che furono dati alle fiamme. I danni
ammontarono a lire 30.000. Entrarono nell’ufficio del podestà, che rimase seduto alla
scrivania. Una donna, Danza Maria Cristina, gli lanciò contro un calamaio di vetro, che
fortunatamente non lo colpì.
Mentre il gruppo più folto compiva vandalismi e violenze nel Palazzo comunale,
che tenne a sacco per due ore, altri si recarono nelle chiese per suonare le campane. Il
parroco di S. Nicola, don Pasquale Mazzeo, lo aveva invano impedito e, minacciando disfondare la porta, qualcuno riuscì a sottrarre la chiave al sagrestano ed a salire sul
campanile.
Un altro gruppo sfondò la porta della chiesa di S. Antonio. Della chiave della chiesa
di S. Andrea, depositata presso un’abitazione vicina, un giovane riuscì ad
impossessarsene. La chiesa di S. Maria delle Grazie era aperta e così quella di S.
Angelo. A salire sul campanile di questa chiesa fu il giovane Zocchi figlio di Gerardo e
un tal Locurcio, cui si aggiunsero un tale soprannominato “cuzzulette” ed un Luparelli
figlio di Domenicantonio.
Furono suonate a stormo le campane di tutte le chiese del paese.
La folla devastò il circolo “Unione”, con un danno di lire 1000, raggiunse il posto
telefonico, sfondò la porta, rovinò l’apparecchio del valore di lire 1500, s’impossessò di
lire 169, e di una sveglia del valore di lire 38; assalì l’esattoria comunale, ma non riuscì
ad aprire la porta, pur avendola spaccata con una scure, perché si accorse dell’arrivo
delle forze dell’ordine. Si stava dirigendo verso i “Molini Fredella” per devastarli, ma
fortunatamente non riuscì, e si preoccupò di elevare uno sbarramento al Perillo ed al
Ponte dell’Annunziata per evitare che arrivassero forze dell’ordine da Foggia, da
Candela e da Accadia. Guardie municipali, maresciallo, carabinieri cercarono in ogni
modo di arginare la rivolta, ma con scarso esito.
Il podestà, cui qualcuno consigliò di uscire dalla porta secondaria, volle uscire da
quella principale. Per salvaguardarlo, fecero scudo alla sua persona carabinieri,
maresciallo e qualche volenteroso. Ma quando giunse davanti al bar di Picariello si
trovò tra tre correnti di folla inferocita che venivano rispettivamente dalla piazza, dalle
scale attigue al palazzo comunale, dalla via di Rosati. Il pericolo di linciaggio era reale.
Il capoguardia Giuseppe Barbarito ed il figlio Oscar riuscirono a spingere il Barbato
verso la strada della Portanuova. Intervenne il maestro Rosati nel tentativo di frenare la
violenza di alcuni giovani suoi ex alunni, e nella mischia gli si spezzò il bastone. Ma il
momento più drammatico si consumò proprio sotto il balcone della casa Rosati,
quando sembrò che il podestà dovesse cadere nelle mani dei rivoltosi.
Miracolosamente guadagnò la via di scampo con l’aiuto di alcuni coraggiosi e dei
carabinieri, ed arrivò davanti alla chiesa della Trinità. Qui si temeva che rivoltosi
giungessero dall’arco Vinciguerra a dare manforte a quelli che già lo inseguivano, ma sicontinuò a correre verso il palazzo Barbato, ove era la salvezza. I ribelli raggiunsero ilpalazzo per prelevare e portare sulle spalle per le vie processionali del paese FrancescoBarbato (fu sindaco dal 1902 al 1920 e podestà dal 1935 al 1938), che ritenevano degnodi reggere le sorti della comunità al posto di Donato.
Essendo interrotte le comunicazioni telegrafiche e telefoniche, due cittadini, il prof.
Cela e il sig. Vinciguerra, si recarono a Candela in automobile per chiedere aiuti.
Giunse alle 21 dal comune di Accadia con un mezzo celere e con un buon nerbo di militiil commissario di pubblica sicurezza Luceri Arturo, cui era stato ordinato di provvederesubito a ristabilire l’ordine pubblico, ad identificare ed arrestare i responsabili dellarivolta. In piazza furono sparati colpi di pistola a salve che allontanarono e dispersero lafolla. Alle 22 in piazza non c’era più nessuno. Durante la notte furono arrestate unasessantina di persone, tra cui anche la Danza, che accusò altre donne. L’indomanimattina, 30 aprile, giunsero a Sant’Agata due grossi automezzi che trasportarono gliarrestati nel carcere di Foggia.
L’autorità giudiziaria procedette a loro carico per i reati di cui agli articoli 194, 425,
403 del Codice penale, nonché per lesioni guaribili in dieci giorni causate con corpo
contundente ad una guardia municipale, al capoguardia Barbarito ed al figlio Oscar di
anni 22. Furono denunciati per gli stessi reati altri cinque individui, ma non arrestati
perché datisi alla fuga.
Dalle indagini emerse che “avendo il podestà, con la sua azione di amministratore
rigido e sereno, urtato inveterate malsane abitudini della popolazione con
l’applicazione di alcune misure igieniche e con l’inasprimento delle tariffe della tassa
di esercizio e patente si era manifestato un certo malcontento, del quale non mancaronodi approfittarne nemici…”, tra cui il veterinario di condotta Rampino Antonio,fiduciario dei sindacati comunali riuniti ed ex presidente dell’antica “Casa del popolo”“a carattere socialistoide”, poi divenuto circolo “Umberto I”, i cui iscritti erano
artigiani, contadini e piccoli proprietari. Il Rampino aveva spinto gli scontenti alla
rivolta e perciò fu arrestato il I maggio. Fu accusato dello stesso reato il suo braccio
destro, Vito Sanità, ma non arrestato perché assente.
Il circolo “Umberto I”, donde mosse la rivolta, venne chiuso. Le autorità provvidero
a rinforzare la locale stazione dei carabinieri.
Il tribunale di Foggia condannò Antonio Pezzano a 6 mesi, Antonio Fiano a 5; 20
persone a 4 mesi; 2 a 3 e una a 2 mesi. Ci furono 49 assoluzioni ed in carcere rimaserosolo 7 persone. Furono assolti dall’accusa di correità per mancanza di prove il Rampinoed il Sanità.
Il Barbato dovette lasciare la carica di podestà. Successe il commissario prefettizio
Gaetano Della Rocca (settembre-novembre 1928), ed a questi il podestà Samuele
Danza (1929-1934).
Il parroco monsignor don Donato Pagano, che era stato sorpreso dalla notizia della
rivolta mentre nella chiesa di S. Angelo con l’arciprete Vinciguerra recitava la novena
di S. Michele, indusse i fedeli ad elevare al Signore preghiere pubbliche riparatrici e
pacificatrici.
Si concluse così una rivolta popolare che tanto danno recò al patrimonio archivistico
del municipio con la distruzione di documenti e registri, distruzione che ha lasciato un
vuoto di secoli nella storia civile santagatese. Uno scempio imperdonabile!
Le riforme e gli ordinamenti introdotti da Donato Barbato non furono accantonati
ma col tempo accettati e riconosciuti necessari dal popolo, perché contribuirono
effettivamente al miglioramento delle condizioni di vita e al rispetto per l’ambiente, e
portarono ordine nella pubblica amministrazione, ove si consumavano abusi proprio a
danno del popolo.
Dora Donofrio Del Vecchio
(Confraternita di S. Antonio e della SS.ma Annunziata)