IL FILO DELLA MEMORIA :" LA UAGLIONA "STORIE VISSUTE RACCONTATE DA MARIO DE CAPRARIS
A settembre il gruppo di cui facevo parte arrivò in città (era la prima volta che ci mettevo piede) per cercare una pensione che permettesse di frequentare la scuola superiore. Il pulman si fermò in piazza San Francesco. Sotto il Santo, nella pozza d'acqua si buttava la monetina. Erano i primi anni Sessanta e c'era nell'aria una certa atmosfera fatta di novità, di progresso in atto, di benessere diffuso - il frigorifero, la lavatrice, la televisione, il supermercato, lo stadio, i grandi magazzini - cui non si sapeva resistere. Trovata la pensione fu d'obbligo una puntata alla Standa, nuovo tempio della realtà che premeva alle porte: il consumismo. E lì, salendo la scala mobile, ecco i tormentoni “Sapore di sale” e “Abbronzatissima”. Noi che sentivamo, forse perchè le cose che non si conoscono fanno sognare, quelle canzoni effettivamente ci facevano sognare, anche se parlavano di un mare mai visto, di una sabbia mai vista, di un profumo di salsedine mai sentito. E anche le canzoni che in seguito vi andammo apposta a sentire, parlavano una lingua che non conoscevamo e proprio per questo avevano una bellezza particolare, tipo Put your head on my shoulder, oltre a Diana, di Paul Anka oppure Smoke gets in your eyes e Only you dei Platters che, anche se non erano canzoni proprio recenti, comunque impazzavano ancora. Cominciammo poi l'anno scolastico nelle due camerette che ospitavano cinque ragazzi. Le camere facevano parte di un appartamento non nuovo, ma facevano la differenza con la casa che si era lasciata al paese. Il tavolo da dividere con l'altro, il lettino in un angolo. Il grande albero della robinia sul viale era visibile dalla finestra. A sera, presa la sedia, si andava in camera da letto dove la signora teneva la televisione accesa per assistere ai programmi. E guardavamo Carosello, il tenente Sheridan, i telefilms presentati da Hitchcock. Dopo si andava a dormire. Il tempo di sentire il rombo dei camion e rimorchi sul vicino viale Ofanto – che allora era la vecchia circonvallazione – per poi piombare nel sonno. La pensionante a volte si intratteneva con noi ragazzi e raccontava che lì in città, ragazza si diceva “uagliona”. - Tu tieni la “uagliona”? - domandava tutt'assieme rivolta verso uno di noi. - No - si affrettava a rispondere quello. - Come? Stai in città e non ti sei fatta ancora la “uagliona?” - replicava la pensionante. E sembrava quasi che in città veniva facile procurarsi la “uagliona”, tanto che c'era chi si meravigliava che non ci si fosse fatta già la “uagliona”. Ma noi ci andavamo cauti. Quella parola, “uagliona”, dava la sensazione che in realtà la “uagliona”, se andavi a guardare, non è che poi fosse tanto abbordabile. Insomma la ragazza non era la “uagnarda” che, si sente dalla parola stessa, era molto facile avvicinarla e fare amicizia. Lì in città era diventata la “uagliona”. Già la parola non predisponeva, e, anche se aveva un suo fascino perchè faceva pensare ad una buona ragazzona di famigliona, rimaneva il fatto che bisognava riuscire ad entrare in quel nuovo mondo che rappresentava quella parolona. I compagni furono immediatamente decisi: - Ma quala “uagliona”? Stanne tanda “uagnarde” -. E per loro finì lì, anche se però ogni tanto guardavano le ragazze, cioè le “uaglione”. Nella squadra locale di calcio allora militavano i nomi mitici di Moschioni, Rinaldi, Nocera, Valadè, Faleo, Gambino, Lazzotti e gli altri. Il padrone di casa spesso ci descriveva le partite. Era entusiasta dell'allenatore Oronzo Pugliese, il vignaiuolo di Turi. Noi un po' rimanemmo contagiati dal suo tifo, così cominciammo ad andare a vedere gli allenamenti. Nei sei mesi in cui la squadra fu imbattuta, il padrone di casa le domeniche era di un'allegria unica. Dopo che aveva saputo il risultato scherzava, era allegro, cantava. Era mezzanotte e nel bagno cantava ancora. Doveva pensarci la moglie a farlo smettere con un grido che svegliava qualcuno di noi che già aveva preso sonno. Con i successi conseguiti, il sogno della serie A cominciava a diventare realizzabile. Tutti i tifosi vivevano sospesi, cullando per il futuro memorabili partite con le squadre blasonate, che sarebbero scese giù al Sud a giocare con una squadra di provincia. Ci pensò il Napoli a farli precipitare dal limbo. In una disastrosa domenica dei primi di maggio del 1964, nello stadio partenopeo il Foggia-Incedit buscò una sonora batosta per tre a zero che fece piombare i tifosi nella delusione più profonda. La sconfitta fu difficile da digerire. Il traguardo della massima serie sembrava tutt'assieme irraggiungibile. La sera di quella domenica, quando ci mettemmo a letto, in casa non volava una mosca. Era come se fosse capitata una disgrazia. Quella volta non ci fu bisogno che la pensionante gridasse, per fare smettere al marito di cantare. Andò a finire che eravamo già tornati al paese, perchè l'anno scolastico era terminato, quando sapemmo che il Foggia per la prima volta aveva conquistato la serie A. Ci immaginammo che cosa poteva essere successo in casa della nostra pensionante, in quali escandescenze di euforia stava andando il padrone di casa, a quali canti si sarebbe lasciato andare, alle grida che avrebbe lanciato nella notte la moglie. E questa volta sicuramente non avrebbero ottenuto l'effetto di farlo smettere.