Era la sera del 23 settembre 1865, allorquando al Teatro alla Scala di Milano venne rappresentata l’ultima volta la “Giovanna D’Arco” di Giuseppe Verdi, ed oggi l’Opera vi ritorna dopo 150 anni a pieno titolo, raccogliendo gli stessi unanimi favorevoli consensi di allora, sia da parte della stampa che degli spettatori.
Successo ottenuto grazie, oltre che alla musica del grande compositore ed a tutto il suo contorno, di cui parlerò subito dopo, anche ad un cast d’eccezione, che vede nelle vesti della Pulzella d’Orléans una splendida Anna Netrebko, affiancata da altrettanto bravissimi interpreti quali Francesco Mieli nei panni di Carlo VII, Carlos Alvarez (Giacomo), Dmitry Beloselskiy (Talbot), Michele Mauro (Delil).
Le recite, che con la Prima del 7 dicembre 2015 hanno aperto la stagione scaligera 2015/2016, si concluderanno il 2 gennaio 2016, sempre con Riccardo Chailly Direttore Principale dell’Orchestra e del Coro del Teatro alla Scala.
Per quanto riguarda l’Opera, dopo i successi ottenuti nei grandi teatri del Lombardo-Veneto e degli altri Stati della penisola, Giuseppe Verdi, in seguito a reiterate sollecitazioni dell’impresario Bartolomeo Merelli, non dimentico degli ottimi incassi fruttatigli dalle Opere del Compositore, ritorna sul palco del “Teatro alla Scala” con la sua settima Opera dal titolo “Giovanna d’Arco”.
Si tratta di un dramma lirico in un prologo, tre atti e quattro quadri, che il librettista Temistocle Solera mette in versi, traendolo con propri adattamenti dal dramma “Die Jung Frau von Orléans”, scritto nel 1801 da Friedrich Schiller, poeta germanico che in seguito sarà l’ispiratore di altre tre Opere di Verdi, andando ad affiancarsi al francese Victor Hugo ed all’inglese George Byron.
Nonostante l’intenso e frenetico lavoro, che lo vede nelle vesti anche di curatore degli allestimenti, Verdi non si tira indietro, e così in meno di un mese, dal 9 dicembre 1844 al 6 gennaio 1845, mentre alla fine di quel mese di dicembre si occupava anche della ripresa sempre alla Scala de “I Lombardi alla prima crociata”, tira fuori quest’altro capolavoro.
Per il prologo pare che Verdi avesse trovato ispirazione dalle pessime condizioni atmosferiche incontrate durante il non felice viaggio “lungo e noioso” in carrozza, soprattutto percorrendo l’Appennino centrale, affrontato per tornare da Roma, dove era stato rappresentato il suo “I due Foscari”, a Milano, dove il Maestro “appena arrivato aveva tutte le ossa fracassate”, così come annota Emanuele Muzio, l’unico allievo di Verdi, attento nel perpetuare pedissequamente nelle proprie lettere aspetti e circostanze della vita del Musicista, aggiungendo che “a Milano non fa che nevicare”.
La prima rappresentazione ebbe luogo la sera del 15 febbraio 1845, in occasione del carnevale, ed il successo di pubblico fu enorme, tanto da fare scrivere a Muzio in una sua missiva ad Antonio Barezzi: “Se Giovanna d’Arco non avesse pensato per conto suo ad esternarsi con le sue gesta, ci pensa la musica del Sig. Maestro”, così come il diligente Muzio non smise mai di chiamare Verdi, in una forma di ossequioso rispetto e di religiosa venerazione.
L’accoglienza trionfale tributata dagli spettatori alla musica della “Giovanna d’Arco”, giudicata, sempre da Muzio, “terribile”, “magnifica”, “da far trasecolare”, varcò presto i confini delle poltrone dei palchi e degli scanni del loggione del Teatro, per riversarsi nelle strade di Milano, dove un grosso organo, come ci ha mostrato Renato Castellani nel suo sceneggiato televisivo del 1982, eseguiva in continuazione la sinfonia dell’Opera, creando, per la gran folla che vi si radunava entusiasta, grossi problemi al traffico cittadino, inutilmente cercati di impedire dalla gendarmeria austriaca; ma oramai i milanesi mangiavano il pane adoperando per companatico la musica di Verdi.
Ciò, naturalmente, perché, oltre alla scorrevolezza della vena melodica, ai toni accesi e spettacolari, anche in “Giovanna d’Arco”, come già nelle opere precedenti, affiorano motivi patriottici; siamo nei ruggenti anni Quaranta e si avvicina il ’48, ed ovviamente il personaggio fortemente drammatico di Giovanna, eroina che si batte per la liberazione del proprio popolo dalla dominazione inglese, viene subito visto come il protagonista di una vicenda del tutto assimilabile a quella del popolo italico, sottomesso all’oppressore austriaco e che aspira fortemente alla propria liberazione.
D’altro canto lo stesso Solera era figlio di un condannato a morte per attività sovversiva nei confronti dell’Impero Austro-Ungarico, e nel salotto “bene” della Contessa Clara Maffei, nata Carrara-Spinelli, frequentato da pensatori, poeti, letterati, insomma l’elite intellettuale della capitale lombarda, l’aria che si respirava e gli argomenti su cui ci si dibatteva non potevano discostarsi dall’esame della situazione opprimente, creata dalla dominazione straniera, mostrando piena adesione alla causa risorgimentale, che faceva perno sulle idee mazziniane e repubblicane.
Tutto questo non poteva non colpire ed non entrare nell’animo di Verdi, di per sé già predisposto, o lasciarlo indifferente di fronte agli aneliti e alle speranze che maturavano in quei consessi altolocati, a cui Egli partecipava con assiduità, anche per l’interesse che aveva nei confronti della cultura locale, impersonata dal Manzoni, e dei classici d’oltralpe, per i quali si poteva beneficiare delle traduzioni che gli fornivano il poeta Andrea Maffei, marito della Maffei, e lo scrittore Giulio Carcano.
Nella sola città di Milano l’Opera fu ripresa 17 volte, ma per tutto il XIX secolo venne rappresentata in molti altri teatri di altre città, fra cui Roma, dove a causa della censura papalina, che vedeva di buon occhio più una lesbica che una santa armata di spada, tre mesi dopo la première scaligera andò in scena al “Teatro dell’Opera” con il titolo “Orietta di Lesbo”, con sostanziali modifiche nei personaggi e nell’ambientazione; in Francia, invece, ovviamente l’opera tenne banco per lungo tempo nel cartellone del “Théâtre des Italiens”.
Nonostante i consensi ricevuti ovunque fosse stata rappresentata, l’Opera viene considerata minore da una parte della critica, ma ingiustamente a mio avviso; certamente ci si trova di fronte ad una partitura di non largo respiro, atteso che il tutto dura soltanto due ore, ma “la brevità non è mai un difetto”, affermava Verdi.
In effetti con questo lavoro il “il Sig. Maestro” non apporta sostanziali innovazioni sul piano stilistico, se si eccettuano i primi tentativi sperimentali verso il mondo del fantastico e del sovrannaturale, tendendo il Compositore piuttosto a consolidare gli aspetti della propria drammaturgia, già sperimentata con successo nelle opere precedenti; al contrario dell’orchestrazione che si arricchisce, invece, di un più sostanziale apporto dei fiati, nonché dell’intervento dell’arpa e dell’harmonium.
Anche qui non manca il solito collaudato angolino, sempre d’effetto, in cui far risuonare le note di una marcia trionfale, eseguita da una banda fuori scena; ciò non toglie che già a partire dalla Sinfonia, in tre movimenti, che fanno scorrere un fremito nelle vene, si ha il piacere di ascoltare melodie bellissime, e poi c’è il ritorno in massa dei cori, ai quali viene dato ampio spazio.
È, comunque, sempre un’Opera composta nei famosi “sedici anni di galera”, durante i quali Verdi profonde il massimo delle proprie energie giovanili, creando un capolavoro, che pur non raggiungendo i vertici di un “Nabucco” o di “Ernani”, resta per un melomane come me, e non solo, un’altra perla verdiana ricca di fascino accattivante, giudicata dallo stesso Autore la migliore fra quelle composte fino ad allora.
Per la cronaca, con la “Giovanna d’Arco” Verdi dà il suo addio al “Teatro alla Scala”, per una serie di motivazioni che amareggiarono moltissimo il Musicista e che riassumo qui di seguito: innanzitutto la critica specializzata non fu del tutto benevola nei confronti dell’Opera, giudicata un lavoro di vecchio stampo di un musicista che dovrà ancora raggiungere la sua maturità.
Ci fu poi la faccenda che vide l’impresario Merelli incaricare il librettista di scegliere il soggetto, decisione non di poco conto, sia pure presa di concerto con il Musicista, il quale, tra l’altro, non era del tutto entusiasta della storia da mettere in musica, alla luce del fatto che si trattava di un argomento trito e ritrito; questo, comunque, non gli impedì di occuparsi personalmente della stesura dell’Opera, che, purtroppo, ebbe a risentire gli effetti negativi di un allestimento molto approssimativo, con grande disappunto da parte del Maestro.
Anche la recita della Prima da parte dei cantanti non sortì risultati brillanti, a parte il soprano Erminia Frezzolini, già grande Giselda ne “I lombardi alla prima crociata”, che nella parte di Giovanna, concepita appositamente per lei, dette il massimo della propria drammaticità, mandando in visibilio il pubblico, al contrario di suo marito, il tenore Antonio Poggi, il quale fu condizionato dall’ostilità del pubblico, che non gli perdonava la relazione con la Contessa Semoyloff, bellissima ma apertamente filo austriaca e pertanto invisa al popolo.
Ci furono, inoltre, altri due fattori contingenti che indussero Verdi a non comporre più un’Opera nuova per la Scala, dove ritornò dopo 24 anni di assenza: il primo riguardava una questione di carattere commerciale, avendo l’impresario con fare dispotico ceduto il libretto all’editore Ricordi all’insaputa del Compositore, con conseguente calo di stima da parte di quest’ultimo nei confronti del Merelli.
Questo episodio ingenerò, ovviamente, dissapori fra i due protagonisti del teatro in musica; inoltre vi fu un incrinarsi nei rapporti anche fra il Maestro e Solera, il quale come librettista godeva della massima stima da parte del Musicista, ma che non ci pensò due volte ad andarsene con la propria moglie in Spagna, dove restò per dieci anni, lasciando incompiuto il libretto di “Attila”, su cui stava lavorando.
Veniamo ora alla trama dell’Opera che si dipana su una vicenda arcinota, non a caso ben 52 Compositori si sono “divertiti” nel corso degli anni a mettere in musica la storia della Pulzella d’Orléans, con “Opere liriche”, come Piotr Il’ic Cajkovskij, Nicola Vaccai, Giovanni Pacini, “Cantate”, come Gioachino Rossini, Lucio Campiani, “Messe”, come Charles Gounod, “Oratori”, come Arthur Honegger, André Jolivet, “Balletti”, come Charles-Marie Widor, “Misteri”, come Roberto De Simone, ecc…-
La “Giovanna d’Arco” di Giuseppe Verdi, però, occupa nel panorama musicale un posto particolare, grazie alla varietà dei generi musicali che essa racchiude, e che vanno dal teatrale drammatico, al mistico religioso, al marziale, toccando punte massime di elevato lirismo e di grande emotività, come quando Verdi ritorna su un tema a lui caro riguardante il rapporto, non sempre idilliaco, fra un genitore e la propria figlia, già trattato nel “Nabucco” e ne “I lombardi alla prima crociata”, oppure quando descrive, musicalmente parlando, mirabilmente il travaglio interno che affligge la protagonista, combattuta fra l’amore verso Dio e quello verso la patria.
Prologo: l’azione si svolge in Francia nel 1429, a Domrémy il re Carlo VII, affranto per le sorti della Francia, soccombente nella guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra, sta pensando di abdicare e di cedere il regno al suo antagonista; nello stesso tempo parla di un sogno, in cui gli è apparsa la Vergine che l’ha invitato a deporre l’elmo e la spada in una foresta.
In realtà nella foresta di Domrémy, che durante la notte si popola di demoni, esiste veramente un’immagine della Vergine, davanti alla quale si trattiene spesso Giovanna a pregare, sotto lo sguardo del padre Giacomo D’Arc, convinto che la figlia sia posseduta dagli spiriti del male; in effetti Giovanna, assopitasi, viene tentata dalle potenze degli inferi, ma intervengono gli spiriti eletti, i quali la esortano a combattere per la salvezza della Francia.
Giunge Carlo che depone le armi ai piedi della fanciulla, la quale si risveglia ed invita Carlo a combattere con lei, rafforzando il convincimento in Giacomo che la figlia sia posseduta da forze diaboliche, che rendono vano il suo tentativo di fermare Giovanna.
Atto primo: nell’accampamento degli inglesi si commenta la sconfitta subita ad opera dei francesi guidati da Giovanna, nel frattempo giunge Giacomo, il quale, ritenendo la figlia essere stata disonorata da Carlo, si impegna a consegnare nelle loro mani colei che è stata la causa della loro sconfitta.
Giovanna, dal canto suo, compiuta la sua missione, vorrebbe tornare a vivere nella foresta, contravvenendo al desiderio di Carlo, il quale, innamoratosi della fanciulla, le offre di restare accanto a lui, Giovanna, però, pur confessando di corrisponderlo nell’amore, non accetta l’offerta, ricordando che gli spiriti eletti l’avevano diffidata dall’accettare l’amore terreno; ma Carlo non recede dal suo proposito, e va oltre, dicendo che riceverà la corona soltanto dalle mani di Giovanna, la quale, suo malgrado, accetta di compiere il rito, provocando l’esultanza degli spiriti maligni per la vittoria ottenuta.
Atto secondo: nella piazza di Reims Giacomo assiste turbato alla cerimonia dell’incoronazione, ma quando vede uscire dalla cattedrale la figlia al seguito di re Carlo, il quale annuncia che sarà eretta una chiesa in onore di Giovanna, come per San Dionigi, patrono di Francia, non sa più trattenersi ed accusa la figlia di essere una strega e di avere avuto rapporti con il diavolo, da cui, Giovanna, sapendo del proprio peccato veniale, non sa discolparsi, ed anche se Carlo la reputa innocente, il popolo la condanna, ed il padre la trascina verso il rogo, appositamente approntato dagli inglesi per la purificazione.
Atto terzo: Giovanna, prigioniera degli inglesi, mentre fuori infuria la battaglia, prega Dio di perdonarla per aver ceduto “per un solo istante” all’amore terreno, ed offre la propria vita in cambio della vittoria dei francesi; Giacomo, che ha ascoltato, si rende conto dell’innocenza della figlia e la libera, consentendole di buttarsi nella mischia, dove l’eroina riesce a salvare la vita di Carlo, ma non la propria, morendo in combattimento, non senza prima aver chiesto a Carlo il perdono per il padre.
L’Opera si chiude, come volle Schiller, con la “pulzella” che lascia la vita terrena, indossando le vesti di una martire eroica in luogo di quelle di una strega bruciata viva, con il conseguente trionfo delle forze celesti su quelle del maligno, del bene sul male.
Una storia all’origine molto complicata, che Temistocle Solera, il quale in questa circostanza ha dato il meglio di se stesso, è riuscito con la sua maestria a comprimere, riducendola a livello di un libretto d’opera, in cui, tra l’altro, i personaggi di Schiller da 27 diventano soltanto cinque, mettendoci però molto del suo, cosa di cui amava vantarsi, senza peraltro preoccuparsi di stravolgere la verità storica, così come quando, al pari di Schiller, fa morire l’eroina sul campo di battaglia, laddove è risaputo che la poverina finì sul rogo; ma tant’è, questo è il teatro, e per amor suo si accetta tutto.
Le incisioni discografiche di quest’Opera sono tutte di altissimo livello, a partire dalla prima, storica, del 1951, che vede come interpreti stelle del firmamento canoro di tutti i tempi nei nomi di Renata Tebaldi, Carlo Bergonzi, Rolando Panerai e la direzione di Alfredo Simonetto dell’Orchestra e del Coro “RAI” di Milano.
In epoca più recente su iniziativa della casa discografica “EMI” c’è stato il recupero di quella del 1972, che, a mio avviso, resta l’edizione meglio riuscita, e che vede nei panni di:
-Carlo VII, re di Francia: Placido Domingo, Tenore;
-Giacomo, pastore di Domrémy: Sherill Milnes, Baritono;
-Giovanna, sua figlia: Montserrat Caballé, Soprano (ineguagliata Giovanna);
-Delil, ufficiale del re: Keith Erwen, Tenore;
-Talbot, supremo comandante degli inglesi: Robert Lloyd, Basso.
Quindi: Ufficiali del re-Borghigiani-Popolo di Reims-Soldati francesi-Soldati inglesi-Spiriti eletti-Spiriti malvagi-Grandi del regno-Araldi-Paggi-Fanciulle-Marescialli-Deputati-Cavalieri e Dame-Magistrati-Alabardieri-Guardie d’onore.
L’orchestra è la “London Symphony Orchestra”, diretta da James Levine, ed il Maestro del “The Ambrosian Opera Chorus” è John McCarthy.
Alfonso De Capraris.
a.de_capraris@alice.it
Foggia, 20 dicembre 2015.