Di recente la nostra società civile è stata attraversata da tensioni, peraltro non del tutto sopite, su un tema che ha acceso gli animi di molti, sfociando di sovente in aspre polemiche, dibattiti, pronunciamenti di addetti ai lavori, prese di posizione a favore oppure contro uno o l’altro degli opposti schieramenti, con il risultato che ne è venuto fuori un tormentone che spesso ha assunto anche il profilo politico, ma che, per quanto mi riguarda, ha avuto quanto meno il merito di avermi fatto ricordare qualcosa lontana, sì, nel passato ma viva nel presente; sto parlando delle Vaccinazioni obbligatorie dei bambini.
Ci troviamo a Sant’Agata nel primo dopoguerra, quando tutte le campagne intraprese dall’Ancien Régime contro le malattie esantematiche come il morbillo, la rosolia, la varicella, la scarlattina, ecc., oppure quelle per combattere le malattie contagiose quali il tifo e la tubercolosi, molto diffuse queste ultime, purtroppo, ed anche con effetti letali, fortunatamente erano rimaste in vigore con l’osservanza dei relativi protocolli di prevenzione; per la malaria, di cui parlerò in seguito, invece i percorsi terapeutci adottati dal governo fascista furono diversi.
Essendo io un fanciullo, fui naturalmente interessato dalla vaccinazione obbligatoria prevista per l’infanzia, lu NNÈSTE, che però non avveniva nelle forme odierne, nel senso che non venivano praticate iniezioni con aghi e siringhe, bensì lo strumento usato era un semplice bisturino, con cui il medico effettuava una piccola incisione sulla pelle nella parte alta del braccio, il sinistro; il perché, poi, di questa scelta non l’ho mai capito, azzarderei l’ipotesi che poteva trattarsi di una forma precauzionale nel caso in cui la cosa avesse dato luogo a processi infiammatori, si poteva sempre operare con la mano destra, di solito la più usata.
E qui cominciavano i guai, perché se il vaccino non dava segni di reazione, tutto finiva lì, se, invece, “peglièva”, come si usava dire a quei tempi, si verificavano effetti collaterali negativi, quali la suppurazione della piccola ferita con fuoriuscita di pus, la “materia”, anche maleodorante, febbre alta e dolore della parte interessata, ca “s’anghièva”.
Io personalmente vissi prtroppo questa seconda situazione in maniera piuttosto pesante e dura a superare, tanto che fu necessario l’intervento di un dottore nostro parente, “ze Vecenzìne” Anzano, un medico molto bravo sul piano professionale ed umano, il quale mi prestò le cure del caso; alla fine della guarigione mi restò “na cecatrice” piuttosto grande, che si nota tuttora, come è possibile vedere “mbacce a lu vrazze” di tantissime altre persone a “lu mère”.
E veniamo alla malaria, male atavico delle nostre contrade che si perdeva nella notte dei tempi, flagello di tante generazioni, (ne fece le spese anche Santa Monica, la madre di Sant’Agostino), provocato dalla puntura della zanzara anofele, che, grazie alla presenza nel territorio foggiano di paludi, pantani, marane ed acquitrini melmosi, regnava ovunque sovrana, trovando nelle paludi il proprio habitat naturale, in cui proliferare in grandissime quantità.
Gli interventi antianofelici attuati dal governo centrale volti a colmare oppure a svuotare con l’impiego di impianti idrovori gli acquitrini si dimostrarono non risolutivi, tant’è che bisognò aspettare l’arrivo delle truppe di occupazione alleate per avere, principalmente a Foggia, un risultato apprezzabile, in quanto gli americani, a causa della paura fottuta che avevano delle malattie da contagio, come la lue soprattutto (a Napoli oltre il novanta per cento dei bambini, i cosiddetti “Figli della guerra” abbandonati nei brefotrofi, nasceva malato di sifilide), ancor più delle cannonate, fissati com’erano per l’igiene personale, decisero di affrontare il problema e di risolverlo in maniera draconiana; infatti ancor prima di prendere possesso della città, effettuarono una radicale disinfestazione della stessa con potenti insetticida, sì che “li zambarìcule spariérne ra la circulazióne”.
Accanto agli interventi di cui sopra, naturalmente dallo Stato italiano non fu trascurata l’opera di prevenzione contro la malaria, che venne, peraltro, attuata in maniera capillare mediante la distribuzione, per il tramite della Croce Rossa Italiana, a tutta la popolazione del chinino, il famoso Chinino di Stato, acquistabile presso le rivendite di sale e tabacchi.
Questo parafarmaco, amarissimo al palato, possedeva in compenso un colore giallo sgargiante, che fornì alle donne italiane l’occasione per mettere a frutto la propria fantasia; infatti molte ragazze usavano sciogliere queste tavolette in una tinozza piena d’acqua, in cui poi immeregevano le loro camicette di seta bianche, che, assumendo il colore giallo del chinino, erano in grado di mettere ancora di più in risalto il seno di una fanciulla, la cui bellezza stava sbocciando in quel momento.