(10/05/2019)
DAL TABERNACOLO DIVENNI GIACIGLIO


di Lucia Solimine


 

Si racconta che nevicava quella notte a Betlemme. E’ impressa quella neve in ogni Presepe, io non me ne ricordo. Ricordo l’affanno, il dolore, l’inadeguatezza. Ricordo Giuseppe, lui che avrebbe dovuto scagliare la prima pietra, prendersi cura di me, far nascere il Bambino. Da tabernacolo divenni giaciglio. Mi dipingono con il volto sereno, protesa verso Lui, ma ho sofferto quella notte, ho gridato, ho temuto il peggio, ho pianto e gioito quando Giuseppe me lo ha mostrato. Come ogni madre ho sofferto, ho avuto paura e alla fine ho trovato ristoro. Accanto a uno sposo dove l’impossibile diviene semplice: essere vergine, sposa e madre. Un timore diverso ho provato mesi prima quando l’Angelo mi ha cercata. Quanti grandi pittori hanno dipinto la mia serenità nel dire “si” ma a me piace riconoscermi nell’Annunciazione del Lotto: é ciò che sono, una ragazza semplice, sorpresa nella preghiera, che osa dare le spalle all’annuncio, solleva le mani sorpresa, infossa la testa tra le spalle, umile, turbata e succube a quella richiesta. Sono viva in ogni sentimento che i vari artisti hanno provato nel ritrarmi. Io protettiva nella fuga in Egitto del Caravaggio, il capo piegato “Io dormo, ma il cuore veglia”, l’angelo al centro a separare l’oblio da cui fuggo e la luce che mi attende; e ancora Giuseppe che regge la partitura affinché l’angelo possa leggere e suonare. Immagine di supporto e di àncora il mio sposo! Io fiera in un altro suo dipinto, sorreggo il bambino e lo mostro ai pellegrini sudici di Loreto, come loro sono una popolana, non sono in trono ma sull’uscio di casa. Quanta umanità ha saputo rappresentare sulle sue tele, anche la mia morte l’ha spogliata di misticismo, niente che rispettasse l’iconografia classica: la faccia terrea, un braccio abbandonato, i piedi nudi. La sua fede messa in dubbio perché come modelle ha usato prostitute, come se il divino non albergasse negli ultimi. È lì che mi ha cercata, é lì che io l’ho atteso. Anche Gibson ha saputo, nel suo film, ritrarre la mia essenza. Il gesto pietoso di ripulire il sangue del Figlio mio dopo la flagellazione, non tramandato nei Vangeli, è un atto d’amore che come avrei potuto non compiere? Il rapporto di tenerezza e complicità che ha saputo restituire sulla pellicola quando ho rivisto nella caduta di Gesù sotto il peso della Croce la sua caduta da bambino, con lo stesso impeto sono corsa da Lui: “Sono qua io” e l’ho aiutato a caricarsi di nuovo la Croce sulle spalle. “Vedi, Madre, io faccio nuove tutte le cose”. Prima che su una tela, nel marmo, su una pellicola, nei versi di un canto, ho sostato nei cuori di ogni artista. La pietà di Michelangelo non nacque davanti al blocco di marmo, nacque prima, quando nella sua mente riaffiorarono le parole di Dante quando, nel Paradiso, mi dice “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura”. A Michelangelo tutto fu chiaro e mi diede le fattezze che più descrivono il mio essere. I nostri corpi si fondono in un toccante momento di intimità, la mia mano destra lo sorregge saldamente mentre la sinistra invita a meditare sul suo sacrificio. Il mio sguardo mesto lo abbraccia e prefigura la sua resurrezione!
Lucia Solimine