(12/11/2017)
FACCIA A FACCIA CON GLI EMIGRANTI : INTERVISTA A MARIO DE CAPRARIS


di Redazione
Acquerello di M.De Capraris
 Acquerello di M.De Capraris


Come è consuetudine di trattenere un colloquio con quanti collaborano a questo sito, stavolta è il turno di Mario De Capraris.

REDAZIONE Mario, incominciamo dalla domanda classica: qual è il tuo rapporto con Sant’Agata?

MARIO Il rapporto con il mio paese è come ovvio che sia, e cioè importante, forte. Per spiegarlo, mi sembra che qualsiasi cosa dicessi non renderebbe l’idea. Collaborando a questo sito ho avuto l’occasione di esternarlo.

REDAZIONE Vediamo di entrare nel dettaglio. Tu ricordi la tua infanzia e parli di chiese, di campane, canti religiosi, feste, di tanta campagna, masserie, grano. Come mai ne parli in tono entusiastico? Non sarà che, siccome ci hai vissuto da ragazzo, il paese ti appare fantastico perché sotto la luce particolare dell’infanzia, mentre in effetti non aveva niente di fantastico?

MARIO In parte è vero. Ma non dimentichiamo che prendevo il buono da tutto, nel senso che, mentre gli adulti si ammazzavano di fatica e per questo non avevano la possibilità di apprezzare ciò che c’era da apprezzare, io, proprio perché ragazzo, ero avvantaggiato e, diciamo così, potevo trovare la bellezza dove agli altri era impedito dal momento che erano impegnati nella lotta per la sopravvivenza.

REDAZIONE Tu hai vissuto quattordici anni al paese. Come mai hai tanto da descrivere su così pochi anni?

MARIO Perché sono stati quattordici anni pieni di tante cose interessanti che al confronto la vita in città appare qualcosa di sbiadito. Si è stati testimoni, seppur ragazzi, degli ultimi riti contadini prima che questi, con la tecnologia, sparissero. Come si fa a dimenticare il tempo infinito trascorso a mietere, con i mietitori che usavano la falce? o l’altro tempo infinito per trebbiare? La raccolta delle olive fatta a mano (occorrevano mesi) o l’uccisione del maiale? Erano tutti riti affascinanti. Si passava tanto tempo insieme a tanti altri. Non so, ma allora si aveva l’impressione di vivere fra tanta ricchezza.

REDAZIONE Ricchezza? Ma se si era poveri?

MARIO È vero, non si aveva denaro, ma noi ragazzi non avvertivamo la povertà. Siamo cresciuti senza desiderare il denaro. La ricchezza era tutto lo sterminato territorio delle campagne; i grandi spazi, il paesaggio, le strade dove giocavamo; le case dei vicini dove entravamo come fosse casa nostra; tutta la grande famiglia dei vicini di casa, di strada. Tanto per dire, gli zii dei cugini erano zii nostri. E poi non si avevano i bisogni che ha creato oggi il consumismo. Sappiamo che non è ricco chi ha molti soldi, ma chi ha pochi bisogni.

REDAZIONE Come ritieni che sia il paese? nel senso di abitarvi?

MARIO Sebbene si sia sempre emigrati e si emigrerà ancora, tuttavia il paese è l’unico habitat possibile perché è l’unico ambiente a misura d’uomo. Le città – dove si vanno ad ammassare uomini, macchine, cemento, inquinamento – non reggono il confronto.

REDAZIONE Perché voi collaboratori del sito raccontate tanto di Sant’Agata?

MARIO Perché raccontare è ritrovarsi. Allo stesso modo mi piace leggere chi descrive pezzi della nostra storia comune. Non mi stanco mai di leggere delle vecchie usanze, vecchi mestieri, persone, comportamenti di una volta, costumi che non ci sono più. È bello condividere queste cose con altri che appartengono al tuo stesso paese. In questo sito mi sembra come tanti di una famiglia che si sono incontrati dopo molti anni e si raccontano la storia familiare. Chi non racconterebbe cosa faceva papanonno e mammanonna, le origini della famiglia e via discorrendo?

REDAZIONE A proposito di nonni, hai raccontato che da ragazzo andavi da tua nonna sotto al Castello e che lei era sempre impegnata a litigare con il gatto. Dici che aveva un rapporto più col gatto che con te e che non aveva gesti di affetto verso i nipotini né mostrava interesse nei loro confronti. Però provavi comunque tenerezza per lei.

MARIO Gesti di affetto allora non si usavano. Ma i ragazzi lo capivano che gli adulti erano fatti così, un po’ duri, quasi anaffettivi, forse a causa delle fatiche pesanti che sostenevano. C’era quello che metteva la cinta appesa alla sedia come spauracchio per i figli o quell’altro il quale si vantava che li faceva filare solo con un’occhiata. O quell’altro ancora, un insegnante, che per lo scopo usava solo il suo aspetto burbero. La mattina che veniva a scuola, già all’aperto i ragazzi, come vedevano che stava arrivando, smettevano di fare baccano e si mettevano in fila in timoroso silenzio. Quello arrivava e passava avanti lasciando una scia di odore di acqua di colonia, che era qualcosa di insolito, abituati come si era all’odore del letame della stalla.

REDAZIONE Hai parlato anche di qualche notte d’estate che sei andato a dormire dalla nonna e sotto il letto hai trovato la bara con le sue lettere, nome e cognome. La notte c’erano i gruppi di gatti che entravano in casa, il fracasso del pendolo…… Con tutto ciò ne parli con un piacere particolare.

MARIO Nonna Nurecchia era la mia unica nonna e soprattutto era la nonna materna. Andare da lei era ovviamente piacevole. Era tutto bello: il focolare, la stalla, la loggia con le scale, la strada via Barbarito. La bara non mi faceva nessuna impressione. Apparteneva semplicemente alla nonna. Io la notte come tutti mi ritiravo, dopo che avevo girato con i compagni in lungo e in largo, e dalla piazza facevo la strada buia. La famiglia era in campagna per gli ultimi lavori. Quando entravo in casa le frotte dei gatti avevano appena finito il concerto sui tetti e stavano già a rincorrersi in casa attraverso il buco nella porta. Saltavano, facevano rumore, ma nonna russava incurante. Io mi coprivo la faccia col lenzuolo perché sembrava che da un momento all’altro qualche gatto mi sarebbe saltato in faccia. Era agosto. In piazza c’era il palco con le luminarie. Le canzoni che vi cantavano erano le arie delle opere. Il letto di nonna era alto un metro e mezzo. Le reti erano le tavole. Il materasso le pannocchie di granturco.

REDAZIONE Dici che anche nelle città dove hai abitato cercavi l’ambiente che, sebbene alla lontana, assomigliasse al tuo paese, per esempio, quando racconti che, avendo trovato casa col vicino campo di grano, si realizzava il vecchio sogno di avere la campagna in città.

MARIO Provenire dal massimo della bellezza ti fa apparire non altrettanto bello tutto il resto. Così l’habitat sano, pulito, fatto di natura alberi campagna, di Sant’Agata ha fatto sminuire qualsiasi altro ambiente. Così si andava a cercare l’angolo che assomigliasse il più possibile a quello che si era lasciato al paese.

REDAZIONE Un’ultima curiosità: come mai a volte parli di mitologia?

MARIO Perché tutti noi che proveniamo dal paese abbiamo questo richiamo mitologico che si identifica con l’infanzia, la campagna, le radici, il paese. D’altronde basta andarsi a leggere Pavese che è un maestro in questo.

REDAZIONE Bene, Mario, arrivederci alla prossima conversazione.

MARIO A presto.