(13/08/2017)
ASSOCIAZIONE CULTURALE ONLUS CATRUM NOBILE: ANTICO FORNO A PAGLIA FAMIGLIA DEL BUONO


di Comunicato Stampa

 

 

Uno degli obiettivi che l’Associazione culturale Castrum Nobile Onlus si è preposto fin dalla sua fondazione è quello di valorizzare e riscoprire il patrimonio culturale del nostro paese. Con tali presupposti, la nostra associazione, grazie alla disponibilità degli eredi di Claudio del Buono, che ci hanno concesso l’utilizzo del loro vecchio forno a paglia, sito in Via Indipendenza, si propone di far rivivere luoghi e tradizioni ormai perdute.

Con l’apertura al pubblico della struttura del vecchio forno (“r lu castierre”), si dà a tutti la possibilità di visitare quei luoghi che hanno visto lo scorrere della vita dei nostri avi. Anche così si onora il ricordo di quanti nel tempo hanno contribuito a scrivere la storia del nostro paese. 

E di notte, Pascuccia la furnèra oppure Giulietta o anche Narduccia, moglie del fornaio Rocco Rosangela camminavano per le strade del paese, bussando alla porta di chi, il giorno prima, si era prenotato per cuocere il pane al forno. Questo era parte di un autentico rituale più che una mera tradizione e, come tale, era scandito da precise regole e precetti, eseguiti con dedizione e cura da chi di questa professione ne aveva fatta una vera e propria arte.

La produzione “in proprio” del pane era, a Sant’Agata di Puglia, quasi del tutto, una prerogativa femminile, in quanto tutte le fasi che precedevano la vera e propria cottura erano eseguite dalle donne.

Tutto iniziava al calare della notte: il fornaio accendeva il forno, mentre sua moglie girava per le case dei clienti a scandire ogni singola fase della lavorazione del pane.

Intorno all'una la moglie del fornaio svegliava le donne del paese recitando quasi una formula magica; usava infatti dire: “Tromba!”, che invitava le donne ad alzarsi per procedere all’impasto con il lievito madre (lu crescènde).

Trascorso il tempo della giusta lievitazione, precisamente verso le quattro, la stessa rifaceva il giro delle case, recitando la frase: Scèna!”, che segnalava il momento di dividere la pasta lievitata in pagnotte o pizze bianche e al pomodoro.

Immediatamente prima, la pasta lievitata veniva segnata con un segno di croce, eseguito con una paletta di ferro, realizzata esclusivamente per questo utilizzo. “Benerica crisce”...Era l'invocazione rivolta a Dio affinché Lui stesso benedicesse il frutto del lavoro della terra e lo accrescesse anche per renderlo disponibile a tutti gli uomini. Ancora oggi nel nostro dialetto, la medesima espressione è abitualmente utilizzata, proprio come per le piccole forme di pane, anche per invocare la benedizione del Signore sui neonati affinché possano crescere in buona salute.

Per non confondere la proprietà delle pagnotte, esse venivano contraddistinte da simboli o sigle, apposti attraverso l’utilizzo di strumenti di legno simili a timbri (per chi li possedeva, mentre altri scolpivano un segno distintivo con un pezzo di pasta, chiamato “lu cingul”).

Alle sei, la fornaia, ripassava a raccogliere le forme di pane che le donne avevano accuratamente adagiato sul cosiddetto “spulicchie”, una tavola di legno utilizzata per il trasporto da e per il forno, interponendo un canovaccio intrecciato, la spera, che posto tra il capo e lu spulicchie, ne rendeva più agevole il tragitto.  

I forni a paglia, le cui esatte origini sono sconosciute, esistevano, secondo la tradizione orale, già quando il paese iniziò la sua espansione oltre la zona del Castello tra XV-XVI sec.

Essi sono esistiti fino alle soglie degli anni ’60 dello scorso secolo;  si suppone infatti che la causa della loro chiusura sia dovuta ad alcune norme emanate in quel decennio, che hanno modificato il sistema di produzione e vendita del pane.

Ma come funzionava esattamente un forno a paglia?

Innanzitutto veniva accesa la paglia (si diceva che quella delle fave fosse la migliore), distribuendola nella fornace, attraverso un movimento circolare del braccio molto simile a quello eseguito per la semina a mano.

Si attendeva quindi il raggiungimento della temperatura ideale del forno (circa 400°/500°), ciò lo si capiva dal colore che assumevano le pietre, precisamente al momento dell’accensione esse erano ricoperte di una patina nera dovuta al fumo, che successivamente diveniva bianca.

Solo allora potevano essere adagiate le teglie con le pizze, permettendo anche al forno di raggiungere una temperatura più bassa e, perciò, adeguata alla cottura del pane.

Prima di mettere il pane a cuocere, il forno veniva lavato e pulito con lu munele, realizzato con  stracci di iuta bagnati e legati ad un asse di legno, utile ad eliminare i residui di cenere della cottura precedente.

In seguito la fornace, chiamata “lu ‘nfiern” (inferno) e la bocca del forno venivano chiuse e ben sigillate con un impacco di cenere e acqua per far cuocere il pane ad una temperatura costante. La cottura durava circa un paio d’ore.

Mentre la cottura delle pizze era gratuita, quella del pane aveva invece un costo; ciò portava quasi tutti a cercare soluzioni "alternative" per risparmiare sui prezzi della cottura. Storie tramandate raccontano di persone che realizzavano pagnotte più grandi di un chilo, che era il peso del formato regolare, oppure commissionavano allo stagnino teglie più ampie, che però talvolta non entravano nella bocca del forno, e pur di inserirle, queste venivano movimentate a tal punto che finivano per assumere con la cottura forme stravaganti.

Chi non aveva possibilità di pagare, poteva farlo lasciando al fornaio una o due pagnotte, che lo stesso poteva anche rivendere, il cosiddetto "fornatico".

Perché almeno il gusto del pane non mancasse a nessuno, tutti i fornai conservavano per le famiglie più povere le cosiddette "pupite", vere e proprie croste di pane che si tagliavano dal bordo della teglia quando l'impasto trasbordava e che a cottura avvenuta assumevano una gustosa croccantezza.

Il pane, una volta cotto, veniva riportato a casa dei clienti.

Fino al 1957, erano sei i forni a paglia di Sant’Agata: c’era il forno della famiglia Berardino (Parciavosc) situato in Via Fornaci, poi quello della Croce (il forno dei P'tracca), quello di Sant’Andrea, proprio vicino alla omonima chiesa (della famiglia Iacullo, gli Andunion), poi il forno re Paruzziedd, in via Montegrappa affianco alla trasonna, c’era anche il forno dei Mavilia, all'incrocio tra via Marconi e via Leopardi, infine, ma forse il più antico di tutti, quello di Don Claudio del Buono, conosciuto come Furn r lu Castiedd (Forno del Castello).

Il Forno del Castello, come in realtà tutti i forni a paglia, prevedeva un deposito per la paglia, dove la stessa veniva ammassata facendola passare per un cunicolo che partiva dalla strada soprastante dove si trovavano gli ammassi della paglia, doje pagliere e un ambiente più grande dove era situato il forno vero e proprio e una serie di ripiani che fungevano da deposito del pane, delle teglie, delle spianatoie e degli altri prodotti cotti al forno. Si trattava comunque di un ambiente molto spartano nel quale le uniche suppellettili erano soltanto i pochi strumenti da lavoro.