(15/02/2017)
LE MIE CITTA’ – PARTE PRIMA
Storie realmente vissute raccontate da Mario De Capraris

di Mario De Capraris

 

A rivederla dopo molti anni, la città grande non appare cambiata. Rivedendo i posti che si frequentavano, non so, piazza Venezia, non c’è più il vigile sul piedistallo rotondo con le braccia distese  a dirigere il traffico, oppure a piazza Santi Apostoli non c’è più il locale dove si andava a bere la birra scura nello stivale di vetro e non c’è il cinema Majestic, ma le piazze sono le stesse. Alzando lo sguardo verso il cielo, la linea dei fabbricati è quella nota. Oggi, pensare che si torna in città come si tornerebbe al paese natìo, fa un po’ strano, si sa che ogni città che si è girato ha occupato un posto nel cuore.

I primi tempi ero andato ad abitare in una foresteria  sull’Aventino che non credevo ai miei occhi: davanti, il Circo Massimo e il Palatino. Al cospetto di tanta bellezza della storia si aveva l’impressione che non si desiderasse altro nella vita, perché si era avuto già tutto. Veniva da pensare alle parole di Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”.

Ma, proseguendo per i posti familiari, è all’arrivo in periferia che si trova tutto cambiato, perché nella borgata dove c’erano alberi e verde e qualche fabbricato, adesso è una distesa di cemento e asfalto. C’è ancora il castello, la dimora del nobile di un tempo, quando ancora tutti i terreni del posto appartenevano a un unico proprietario. È scomparsa la grande campagna che era un assaggio dei Castelli. Allora la finestra di casa dava direttamente sul campo di grano. La sera era un coro di grilli e la mattina di passeri. Si era realizzato il vecchio sogno di avere la campagna in città. Sull’arteria principale, la Casilina, la casetta della biglietteria del tranvetto dava l’impressione di una vecchia casa cantoniera di campagna. Vicino correvano i binari separati dal marciapiede. Nel recinto del cortile, dalla fontanella scorreva l’acqua. Per bere si chiudeva il getto col dito e scaturiva lo zampillo dal buco della parte superiore del tubo. Le cicale nell’ombra dei grandi pini. Dopo un tempo interminabile arrivava il tram. Dai grandi finestrini veniva il vento che aveva il sapore di vegetazione e man mano che ci si avvicinava al centro, fino a Porta Maggiore e poi alla stazione Termini, acquistava sempre più il sapore della città. Si tornava la sera quando il jukebox del vicino bar mandava le canzoni dell’estate  e proseguiva fino a tardi la notte, mentre la borgata dormiva.

Trattorie ce n’erano tante, però chissà perché, si preferiva quella da Venanzio, al quartiere San Lorenzo, quella a quattro sedie dei tavolini stretti, che sopra ci mettevano solo il foglio di carta, dove insomma c’era più sostanza che apparenza e ti servivano il pane casareccio tagliato a fette nel cestino e in attesa del primo ti finivi il pane e attaccavi coi grissini. Era una trattoria frequentata dagli universitari della vicina La Sapienza, per cui il pranzo era un’allegra caciara e ogni tanto c’era anche il cantante occasionale che sulla porta cantava il repertorio dialettale.

Poi una sera d’estate su una piazza (chissà perché, ma Roma sembra la cornice più adatta per questo tipo di spettacoli) si tenne un concerto delle arie più belle dalle opere di Verdi. E nella splendida e calma serata romana, per il gruppo fu come un’ubriacatura mentre sentivamo “Addio, del passato…” “Stride la vampa” “Di quella pira…”

Ma che non fossimo intenditori ne avemmo la certezza quando l’amico indicò un’incudine che stava lì in bella mostra in mezzo all’orchestra. Allora ognuno a dire la sua, che era sta dimenticata da qualche fabbro, che un vetturino se ne era servito e via dicendo. E infine fu scoperto l’arcano quando vedemmo un musicista che ci batteva il maglio sopra, mentre eseguivano il “Coro degli Zingari” da Il Trovatore.

Infine eseguirono “Bella figlia dell’amore” e nella notte, tornando ognuno a casa propria, l’aria divenne un tormentone, non si finiva più di cantarla.