(24/05/2016)
LE BOTTIGLIE DI VINO NELL'ARMADIO


di Mario De Capraris

S. Severo ha la classica caratteristica del paese tutt’assieme passato a cittadina, per cui non ha fatto in tempo ad adeguarsi alla nuova condizione e ha conservato intatta la sua schiettezza paesana con tutti gli usi e costumi conseguenti che agli occhi di un cittadino moderno possono apparire quantomeno arcaici. Per rendersene conto basta assistere allo sparo dei fuochi pirotecnici sul piazzale antistante la stazione ferroviaria, in occasione della ricorrenza della festa patronale, quando la moltitudine di uomini avvinghiati con le braccia l’uno di fianco all’altro passano sotto un pergolato di fuochi scoppiettanti.

A maggio non si fa altro che festeggiare. Non è solo la Madonna del Soccorso che si festeggia, ma evidentemente anche altri santi. Ogni sera ci sono fuochi d’artificio. Quando ci ho lavorato, la sera che mi apprestavo a tornare a Foggia, nel buio non si vedevano altro che fuochi.

Un paese assolutamente agricolo. È facile incontrare in centro il trattore, il carro agricolo, la motozappa sul carretto. Ogni abitante, con i suoi bravi ettari di terra, è impegnato a discutere di olio (l’acidità che deve essere molto bassa, il terreno senza concime “sono quarant’anni che non uso concime”, l’oliva Peranzana, la Coratina, “l’olio deve essere verde”), di vino (“poco, poco, ma un po’ di solfito ci vuole, se non vuoi che il vino diventa spunto”), di grano.

Molti, qualsiasi lavoro fanno, in effetti la loro attività principale, e l’unica interessante, è l’agricoltura, che è anche il loro argomento preferito, avendo al riguardo una estesa conoscenza e preparazione. Il loro rapporto con i prodotti che si ricavano dalla terra a volte mi è parso quasi religioso. E a questo proposito voglio raccontare un fatto.

Dunque, una volta un cliente insistette per regalarmi delle bottiglie di vino che, come ebbe a spiegarmi, l’aveva fatto lui personalmente con tutti i criteri e l’esperienza e la passione di un vecchio viticultore. Un po’ ebbi l’impressione che stesse per consegnarmi qualcosa di sacro, ma non ci feci caso perché non ero abituato a un rapporto tanto particolare con il vino. Anche mio padre aveva la vigna, ma non l’avevo mai visto dare tanta importanza al liquido. D’altronde in campagna, con l’arsura della fatica di allora, si sarebbero bevuti anche il veleno. Insomma presi le bottiglie e, in attesa di stapparle alla prossima mangiata al ristorante tra colleghi, le infilai nell’unico posto che mi pareva adatto in ufficio: nell’armadio, in mezzo alle carte.

Non so come, lo stesso cliente si trovò un giorno a tornare e, nel mentre aspettava seduto davanti a me alla scrivania, il caso volle che aprii l’armadio per cercare un documento. Allora quello vide le sue bottiglie e rimase scandalizzato. Era successo che tenevo le bottiglie in un posto in cui non le dovevo tenere. In quell’armadio danneggiavo volutamente il vino dal momento che l’unico posto adatto – tenne a specificare – poteva essere soltanto una cantina dove la temperatura non era soggetta a variazioni, alla luce eccetera eccetera.

Non di rado al supermercato dove vado a fare la spesa, quando passo dal reparto vini, osservo le bottiglie di plastica esposte alla luce, alle variazioni di temperatura e via dicendo, e mi ricordo di quando scandalizzai il mio cliente. Questi doveva sicuramente appartenere a una cultura ormai scomparsa, visto che al supermercato danneggiano il vino senza che si scandalizza nessuno.