(16/12/2025)
L’ULTIMO NATALE A SANT’AGATA
Il mondo rurale di una volta

di Mario De Capraris


Sant’Agata di Puglia, estate 1963    Quell’estate fui mandato in contrada Contillo da zio Ortensio, la cui masseria non era isolata come la nostra di San Pietro, ma faceva parte di un gruppo di masserie. Era il posto dove aveva vissuto mia madre prima di sposarsi. Di quelle masserie lei conservava un bel ricordo e una grande nostalgia perché, diceva, erano come un paese, c’era sempre gente, le case avevano una grande aia e soprattutto non c’erano alberi, cosa che a mia madre piaceva molto. Infatti la contrada di San Pietro non l’apprezzava perché era piena di alberi, perciò diceva: “Sono venuta a buttarmi ‘nda re frasche.”Insomma arrivai a Contillo dove zio Ortensio aveva appena cominciato a trebbiare i suoi covoni. Salii sul covone dove c’era già mio cugino intento a buttare i fasci di grano verso l’elevatore della trebbia, mi diedero un forcone in mano e immediatamente andai a finire in mezzo a due covoni. Ma riuscii a venirne fuori e in men che non si dica la trebbia si era ingoiata mezzo covone. Finché venne mezzogiorno quando venne approntata una tavolata lunga lunga davanti alle masserie sull’acciottolato sotto il sole. Incominciarono ad arrivare i primi piatti di orecchiette al sugo. Mia cugina mi disse: “Prendi questo straccio e scaccia le mosche.”La sera non ricordo dove mi misi a dormire, ma mi chiedo dove fosse mai possibile che avessi dormito visto che al pianterreno dormivano gli zii e non c’era altro spazio. E al primo piano c’era una quantità di grano che occupava tutto lo spazio. Comunque, finita la trebbiatura, il cugino si offrì di accompagnarmi a San Pietro. Così salì a cavallo di uno dei suoi muli, ma senza mettere il basto, avremmo cavalcato a pelo. Vedendo che io era titubante disse:“Che aspetti?” Ma io ero titubante perché tutt’assieme mi ero trovato davanti a una cavalcatura di dimensioni doppie rispetto a quella mia solita, cioè l’asina. Salire sul mulo? Ma ci voleva una scala! Poi più o meno tirato su dal cugino, riuscii a salire e mi resi conto che la mia asina rispetto al mulo era come la bicicletta in confronto a un’automobile. E quando il cugino, attraverso i campi (non sulla strada normale) incitò il mulo a correre, allora mi misi l’anima in pace che sicuro sarebbero venuti a raccoglierci per terra a pezzi. 
Foggia, anno scolastico 1963/64Un giorno, quando tutto andava per il meglio, quando tutto filava liscio, ecco che un giorno – ero da solo – la vedo entrare nella mia cameretta con un’aria preoccupata. “Mario, senti” mi dice mentre cerca di trovare le parole adatte. “Non te ne avrei mai voluto parlare, ma è necessario farlo” aggiunse prendendo fiato. “Ditemi, è successo qualcosa?” dissi io.“No” disse la pensionante “non è successo niente. Solo che il mensile della pensione non me l’hai ancora dato. Sai, io per te vado a fare la spesa con i soldi miei.”“Sì, scusate. Me li manderanno subito” mi affrettai a rassicurarla, pur non avendo nessuna sicurezza che me li avrebbero mandati, né avevo la possibilità di sollecitare perché come facevo a parlare con quelli di casa? E lei, di botto: “Guarda che se non mi dai i soldi, ti lascio a digiuno. Questa volta ti ho avvertito, ma se dovesse succedere un’altra volta, a tavola ti presento il piatto vuoto.” E se ne andò. Poi la faccenda fortunatamente si risolse perché finalmente arrivarono i soldi. Ma, memore di questo fatto, quando eravamo a fine anno scolastico e mancavano pochi giorni che dovevo lasciare la pensione, mi diedi da fare per concludere il programma scolastico entro l’ultimo giorno pagato, perché, se malauguratamente avessi sforato, il piatto vuoto a tavola sarebbe stato assicurato. E non è che potevo aspettarmi altri soldi perché ormai a casa erano tranquilli che quello era l’ultimo mese e figurati se avrebbero accettato spiegazioni che mi serviva qualche altro giorno per concludere il programma, ammesso e non concesso che mi sarei potuto mettere in contatto. Per questo motivo, a tutti i professori chiedevo con insistenza di essere interrogato. Quelli, che, si vede, non gli era mai capitato un alunno che con tanta solerzia si facesse avanti, rimanevano un po’ perplessi e non potevano non esprimere una certa soddisfazione, infatti dicevano:“Fa piacere vedere un alunno che ha un tale interesse per lo studio. “ Io glielo volevo dire: “Non è che ho interesse per lo studio. Ho interesse per la pancia.” La prospettiva del piatto vuoto non era allettante.La somma della borsa di studio che avevo vinto, complessivamente era di 220.000 lire. La metà, 110.000 lire, spettava per il primo anno delle medie superiori e l’altra metà per il secondo anno. Però la seconda metà spettava solo se si superava il primo anno con un buonissimo profitto. E qui casca l’asino, perché, manco a farlo apposta, l’anno scolastico era cominciato proprio male. Infatti la professoressa di disegno, nel suo periodico aggiornamento a voce alta sul profitto degli alunni che esprimeva con fare solenne e disprezzando quasi tutti, quando arrivava a me diceva:“De Capraris dorme sugli allori” e io giù i pianti che mi facevo dal penultimo banco dell’enorme aula di disegno. Figuriamoci se potevo sperare di prendere l’altro pezzo di borsa di studio. Se dormivo sugli allori, quando mai sarei riuscito a prendere gli altri soldi? Poi successe qualcosa che non mi sarei mai aspettato. Ai colloqui con le famiglie, quando nessuno dei miei ci era mai andato, quando niente lasciava prevedere che qualcuno ci sarebbe andato, stranamente mia madre (mia madre? deve essere uno scherzo della memoria) andò ai colloqui. E quando si presentò alla professoressa di disegno, quella quando sentì il mio cognome disse:“Chi? De Capraris? De Capraris è un cannone”.Mia madre incassò il complimento e mezzo stordita se ne andò senza dire una parola. Così ero passato da dormire sugli allori a cannone. La professoressa di disegno era un’artista. Infatti anni dopo vidi una sua mostra di quadri in corso Giannone a Foggia. Dei quadri stupendi, mentre lei, in un cantuccio del locale, priva del suo aspetto cattedratico, faceva tenerezza. Mi presentai, lei disse che si ricordava di me, ma capii che non si ricordava affatto e lo diceva solo per gentilezza. Fuori della cattedra era tornata una persona normale. Poi un certo giorno - eravamo ai primi di dicembre - qualcuno di casa si ricordò che avevo un cappotto malandato e mi fecero pervenire dagli zii di Rimini un cappotto nuovo di zecca che il loro figlio non aveva mai indossato. Solo che questo cappotto aveva qualcosa di particolare, motivo per cui il figlio non l’aveva mai indossato: era un cappotto colorato con colori di fantasia. Il che non è che mi entusiasmasse tanto, ma per il momento lo misi nell’armadio in attesa di pensarci meglio. Ora, di dà il caso che l’armadio non si trovasse nella mia cameretta (cameretta che dividevo con un altro ragazzo) ma si trovava nella camera più grande, quella occupata da altri tre ragazzi. Insomma un giorno che ero fuori, questi tre compagni vedono il cappotto, scoprono che è mio e, quando ritorno, giù le risate e il divertimento perché dicono che porto un cappotto da donna. La cosa naturalmente mi fa desistere dall’indossare il cappotto nemmeno una volta e a Natale che torno al paese mi comprano un cappotto nuovo. All’amico di stanza un giorno gli venne una idea fantastica: lavarsi i denti con lo spazzolino. Siccome la mattina dopo lo trova bagnato, avvia un’inchiesta per accertare chi di noi ha usato il suo spazzolino, perché, secondo lui, noialtri, che nessuno usava lavarsi i denti, alla vista dell’oggetto nuovo, non aveva resistito e aveva ceduto alla tentazione di provare a vedere che succede quando si usa il dentifricio. Dunque era passato ottobre, era passato novembre, ecco che era arrivato dicembre e quindi Natale. Non vedevo l’ora di prendere il pulman per il paese. Natale 1963. Avevo 14 anni e le mie successive Vigilie avrei avuto sempre il desiderio della mia famiglia. Non che i miei mi facessero chissà quali feste quando arrivavo, anzi sì e no si rendevano conto che ero tornato, ma la casa è sempre la casa. D’altronde erano già talmente impegnati per conto loro nei lavori di campagna (papà diceva che passava sei mesi a raccogliere le olive in compagnia solo della gatta) che figuriamoci se potevano pensare a chi veniva a passare le feste natalizie. Rivedevo i compagni che avevo avuto nelle scuole medie ed era dolce la compagnia di chi non si era ancora allontanato dal paese e non sapeva, non si rendeva conto di come era fortunato ad abitare a Sant’Agata, cioè era come se non si gustasse il piacere di vivere al paese. Che tenerezza quando una volta andai con mia madre al Mattutino a Sant’Angelo. La chiesa ghiacciata, il presepio, i pupazzi. Dunque era quello il mio futuro: sì, avrei abitato in città, ma niente avrebbe potuto togliermi il piacere di tornare a Sant’Agata a Natale. Ma, senza saperlo, quello del 1963 fu l’ultimo Natale che passai a Sant’Agata. Il destino aveva deciso diversamente da come avevo ipotizzato.