(15/03/2019)
I LUOGHI DEL MITO


di Mario De Capraris
Diana Dea della Caccia (foto tratta da Wikipedia.org )
 Diana Dea della Caccia (foto tratta da Wikipedia.org )



Per chi ci è nato è impossibile guardare a Sant'Agata senza pensare al mito, perchè già il nome del paese rappresenta il Mito: Artemisium, come si sa, dalla dea Artemide, Diana dei Romani, la dea cacciatrice, delle selve, dei campi di animali selvatici. Evidentemente si era pensato di chiamare così la prima costruzione perchè la dea, per la natura selvaggia che c'era a quei tempi, meglio rappresentava il posto.

Il nostro mito è il racconto dei luoghi e del tempo di qualche decennio fa, dei personaggi di un mondo che non esiste più, il mondo contadino che rappresenta il mito del primitivo. Quando ci troviamo a leggere qualcuno che descrive la vita agreste del secolo scorso della Daunia, quando non era ancora descritta da nessuno, ci troviamo in presenza di uno che ripercorre il mito e sicuramente si tratta di uno che è andato via a suo tempo e sente il ritorno come una necessità, un bisogno fondamentale. Si tratta di una narrazione povera i cui protagonisti sono i contadini, gli agricoli abitanti di una civiltà anteriore dai propri rituali (l'albero della cuccagna, la corsa nei sacchi, il palco in agosto e le arie cantate dai cantanti lirici) le proprie liturgie (la processione, le chiese strapiene di gente, il pezzo forte della predica), le proprie leggende. Tra queste ultime la leggenda de “la hatta cu lu rèse a lu Serrone”, il cavallo senza testa, l'uomo che camminando lungo le pareti poteva entrare nelle case, ecc.. E poi l'usanza delle patate cavate con la luna calante, il grano seminato con la luna crescente.

E poi i racconti della fantasia popolare, delle sere invernali chiusi in casa mentre fuori infuriava la tormenta di neve. I racconti esauriti e comunque sempre richiesti al nonno che non sapeva più inventarne e ricorreva alla frase con cui prometteva chissà quale altro racconto ma subito dopo lasciava delusi: “Stèva 'na vecchia sopa a nu monde..... aspetta aspetta ca mo' te lu conde”.

Dalla descrizione del mito si capisce che era un mondo vero, crudo come la terra era avara nei raccolti, aspra come la tramontana che sferzava il volto nella raccolta delle olive (la pelle delle mani con le crepe, quasi delle piaghe che venivano curate con la cera calda della candela accesa), un mondo improntato alla ruvidezza, al manesco (i vecchi, sostenitori dell'educazione violenta, orgogliosi di essere stati picchiati a cinghiate dai padri), la natura ostile, tuttavia anche la natura dall'aspetto molto dolce come il fruscìo del grano o del canneto, l'agosto dalle cicale assordanti, la notte dei grilli e delle lucciole, o del cielo strapieno di stelle che davano l'impressione di essere qualche metro più in alto nel cielo, il profumo del mosto o del fieno.  Chi racconta lo fa sempre in termini entusiastici, come se tutto ciò che è venuto dopo non potesse reggere il confronto. Allora non esistevano le condizioni ottimali sia dal punto di vista economico che sociale, si comunicava poco e male, però nulla riesce a togliere il suo fascino.

Nella natura primitiva in cui si è vissuto, si è imparato per la prima volta, senza poterlo scegliere, ciò che l'ambiente insegnava, quando si sentivano gli odori terribili degli escrementi della stalla interna alla casa dove si teneva l'asina e il maiale, o quando si assisteva al fiotto di sangue nel rito  dell'uccisione del maiale, della gallina o del coniglio, oppure ancora quando si assisteva allo spettacolo del grande topo grondante di sangue schiacciato regolarmente sotto la pietra. Nel mito tutto era assoluto e terribile eppure tutto veniva assorbito. In quel mondo ancestrale, poteva succedere l'incredibile e venica accettato come credibile. Poteva accadere l'evento più  misterioso e inspiegabile eppure veniva accettato allo stesso modo di un qualsiasi altro evento naturale come quando nevicava e si era indifferenti a ciò che di straordinario veniva giù.

Quando si descrive una situazione agreste, un posto - non so, la vigna, un campo di grano - di solito viene descritto con un'intenzione che sembrerebbe esagerata, perchè una vigna o un campo di grano si trovano anche oggi e non hanno niente di di tutto ciò che si vuol far apparire con quella vigna e quel campo di grano. Ma la differenza sta tutta nel mito. Quei posti, appartenendo al mito, sono unici e irripetibili. Quando in agosto a fine giornata si andava via dalla vigna, durante la notte si ripensava al posto, ci si chiedeva come fosse possibile che nella vigna non fosse rimasto nessuno, chissà chi poteva aggirarsi tra i filari. La notte che si usciva sull'aia e il grano era rischiarato dalla luna, tutto il paesaggio appariva appeso a un incantesimo che si manteneva a malapena e sembrava che da un momento all'altro un nonnulla potesse  romperlo e sarebbero scomparsi il grano e la luna. 

Oggi si torna al paese perchè è come se solo al cospetto del mito si possono trovare le risposte a ciò che è successo nella nostra vita.

Quando arriviamo sotto il paese, già nei pressi del bosco delle Cesine, ce lo diciamo:”Ecco il luogo del mito, i luoghi di Diana cacciatrice”. 

-        Un giorno, durante la calura estiva, in compagnia delle Ninfe, Diana stava facendo il bagno a una fonte nascosta, all'ombra dei numerosi alberi. D'un tratto dal folto della vegetazione, mentre era impegnato in una battuta di caccia, apparve il cacciatore Atteone che posò lo sguardo su Diana che si bagnava nuda nell'acqua. La reazione di Diana fu istintiva. Detto fatto gli spruzzò dell'acqua addosso e Atteone fu trasformato in cervo. Il cacciatore allora venne sbranato dai suoi stessi cani che non avevano riconosciuto più il loro padrone.

-        Nella Reggia di Caserta c'è la fontana di Atteone e Diana, la statua di Atteone tramutato in cervo circondato dai suoi cani.  

Mario De Capraris