(01/10/2018)
STORIE DI EMIGRANTI REALMENTE VISSUTE RACCONTATE DA NICOLA PERRELLA


di Nicola Perrella

Nicola Perrella (Chiarino)
dal libro autobiografico: 
" Torno".

Quando il bambino ossuto accompagnò il padre all’emporio per dargli una mano a portare le due grosse valigie nuove appena comprate, di cartone verde , capì che qualcosa stava succedendo. Portatele a casa, all’ interno erano foderate di carta marrone a piccoli fiori verdi e odoravano di borotalco. Nel loro interno poteva starci comodo il bambino ossuto, subito iniziò uno strano rito. Cominciarono a riempirle con tutto il vestiario nuovo da lavoro: canottiere, maglioni di lana, mutande pesanti, e calze di bambagia fatte a quattro ferri dalle nonne nei mesi precedenti. Poi scarpe vecchie e nuove, il cappotto buono il trench impermeabile blu con la cintura in vita e la federa scozzese. Nell’altra furono allocate le cibarie bastanti per almeno trenta giorni d’autonomia e i regali da portare ai parenti già emigrati a Stuttgart. 
Il padre sarebbe partito il sabato mattina con la corriera celeste, perché il Consolato Italiano aveva mandato la chiamata fatta dal Consolato tedesco a seguito delle garanzie date dai parenti italiani già domiciliati li. Si perché nessuno poteva partire se non era chiamato da chi già era lì e lavorando poteva garantire vitto e alloggio al nuovo arrivato. Il passaporto era stato vidimato alla prefettura del capoluogo e quindi si poteva emigrare. 
Una volta chiuse, le valige sarebbero potute scoppiare, tenute chiuse dalle due serrature metalliche, dalla cinghia in dotazione e dallo spago a croce che abbracciava i quattro lati.
Sarebbero state riaperte solo a destinazione, lungo la strada avrebbe soddisfatto ai bisogni del viaggio, un piccolo fagotto tenuto insieme da una vecchia borsa a rete.
Il venerdì sera fu un venerdì di passione, le risa si mischiarono al pianto sommesso in un miscuglio di serenità forzata e dolore mal celato. Vennero tutti i parenti, a salutare e a portare piccoli pacchi gonfi di povere cose da portare a chi già aspettava di là dal mondo conosciuto.
Vennero tutti gli amici: gli stessi che aspettavano una chiamata, che si raccomandarono affinché fossero pure loro chiamati da chi si era appena sistemato.
Gli stessi che speravano di trovare una soluzione diversa al duro lavoro nei campi, o con la forestale al rimboschimento o alla disoccupazione miserabile e nera. 
Gli stessi, che si ritrovavano a passeggiare monotonamente in piazza dopo la dura giornata nei campi con zappa o sciamarro e che cercavano la sera nei bar e nelle cantine un Po d’allegria nell’alcool e nel vino.
La mattina del sabato il bambino ossuto fu svegliato dai rumori concitati che si sentivano per casa due ore prima della partenza dal borgo.
Il padre gli si avvicinò e gli prese le mani, era raro che egli si comportasse così. Gli disse: ” Nicò a papà, tu mo’ sì l’om r la chesa. M raccummann penza tu a tutt e statt attient.”Il bambino ossuto non pianse, anche se in gola un nodo doloroso di lacrime scese giù e si sciolse come neve a primavera. Accettò il bacio del padre già vestito nel suo gessato nero a strisce grigie che faceva tutt’uno con i capelli brizzolati. Come una benedizione dal cielo e un’investitura importante.
Il corteo si avviò, ognuno portava qualcosa, arrivato al garage delle corriere, le valigie furono issate sul tetto della corriera in partenza e legate insieme alla selva di valige e pacchi degli altri emigranti. Fu un’ora di grida strozzate, di pianti sommessi e di raccomandazioni per quei coscritti che partivano per l’ignoto.
Dati gli ultimi abbracci, la corriera in uno sbuffo nero di fumo mise in moto il suo motore diesel. Le porte si chiusero e la folla si agitò finché; tornante dopo tornante, in discesa la corriera non sparì dietro l’ultima curva alle fornaci. 
Non si sarebbero visti per mesi il bambino ossuto e suo padre, ogni giorno a mezzogiorno avrebbe atteso coi suoi il fischietto del portalettere che annunciava col nome chiamato ad alta voce l’arrivo della lettera verde con strani francobolli lontani. La lettera semi gualcita gonfia di freddo e di pianto, immancabilmente iniziava con cari tutti...........sono io che vi scrivo per farvi sapere che sto bene e così spero anche di voi .....................Era scritta con l’inconfondibile stilografica blu e nell’inequivocabile linguaggio degli emigrati. Dopo aver dipanato speranze ed elargito notizie sintetiche che rimandavano il dialogo al grande racconto del ritorno, immancabilmente si chiudeva col silenzio attonito dopo l’ ultima frase centellinata a bassa voce.

Dopo mesi di freddo e di stenti, i più fortunati tornavano. Mio padre tornò col piccolo tesoro guadagnato che con altri mille stratagemmi riuscì a farci venir fuori degli anni sessanta per affrontare i non meno facili anni settanta. La magrezza di mio padre al ritorno, fu solo la punta di una tragedia che si consumò fino in fondo nella mia famiglia.

Ognuno di noi deve pagare un prezzo alla vita, per far si che il futuro sia diverso per le generazioni successive che continueranno nel futuro a portare avanti il nostro progresso, che così potrà ancora progredire. Oggi so che se il mio migrare dal borgo è infondo stato acqua di rose, esso è stato possibile perché i miei titani si sono immolati affinché ciò potesse avvenire. 
Già! Titani.........................noi eravamo bambini ed era per i bambini che si andava, senza la certezza del ritorno. 
Dopo mio padre fece ritorno solo il grande vecchio; il Titano dei Titani: nonno Rocco. 
Lui il capitano della nave, lui che mai avrebbe voluto far ritorno, lui che riportò in porto il relitto dopo il naufragio, lui che non ho mai visto piangere davanti alle bare dei miei zii bambini, lui che pianse solo per due secondi vergognandosene, davanti al letto di morte di Nonna Peppina, per ricomporsi subito e chiedere se fosse pronto il caffè per la gente che vegliava di la.
Lui.......................
“capitano mio capitano” nella macchina nera con zio Michele e coi due autisti tedeschi fino alle colline; fino a casa. I suoi ragazzi forti e morti e lui..................................lui non ha fatto ritorno. Sepolto lontano su una collina straniera, per poter riposare in eterno, vicino nonna.

 

 

La notizia arrivò come un fulmine. Ricordo l’esplosione nel mezzo della quiete domestica. Rimanemmo inebetiti, dispersi e sparsi come formiche, un attimo dopo lo sconquasso del formicaio.
Era caduto nella vasca a trecento gradi per la pasta di legno. La fatalità e la leggerezza dei diciotto anni si disse. Aveva sostituito un amico che si era sentito poco bene all’improvviso. Una riparazione non fatta al maniglione della gru che la dimenticanza dell’amico aveva fatto si che egli non sapesse. Un attimo. Un tonfo e mio nonno un po più in là, accorso alle grida che sovrastarono il frastuono della fabbrica.
Diciotto anni e tre giorni di agonia........................Il loro parlare in quelle ore ...........le loro ultime parole nella solitudine di quella terra straniera i loro occhi che mentivano l’uno all’altro lo strazio siderale del dolore che cresceva ad ogni respiro. La sofferenza fisica delle ferite e del dolore per l’imminenza del nulla. Immagino gli occhi dell’uno immersi nel mare degli occhi dell’altro a farsi promesse di ritorno assoluto delle anime a intrecciarsi nell’infinito senza spazio ne tempo, unica dimensione possibile dopo l’ineluttabile di questo mondo materiale a senso unico che non torna indietro per permettere almeno la riparazione di torti cosi grandi e ingiusti. 
“ Michele che aveva sete ................e l’acqua appena bevuta bagnava subito le lenzuola.............dalla vita in giù non c’era rimasto granché.” Che fibra e che cuore il mio ragazzo ..............................” Ci sono voluti tre giorni per non soffrire più “.

 

Il bambino ossuto ricorda poco di lui: di ritorno dalla Germania si fece festa, tutti insieme alla casa al serrone. C’erano anche Lilino e Maria, i due cugini venuti dall’orfanotrofio. Tutti volevano i giornalini di zio Michele: il grande black, capitan micki, tex wiler. Iniziò la bagarre e gli strepiti dei bambini con le tasche piene e il muso sporco di cioccolato tedesco, la grande festa per loro, non era il Natale ma il grande ritorno con le valige piene di cose rare: cioccolato tedesco, caffè, stecche di sigarette, tabacco e bottiglie di birra per i grandi, quei cosi strani e mollicci chiamati würstel. Michele col suo sorriso di sole e la sua inconfondibile allegria, disse ai bambini di allinearsi in fila. Andò dietro il letto dove c’era il comodino scrigno pieno di giornalini e con grande allegria li lanciò in aria come coriandoli ridendo e gridando felice anche lui per quel regalo, per i bambini tutti vicini a lui e per essere tornato e stare tutti insieme, alla casa del padre dopo i mesi di grande freddo.

Appena pochi giorni prima che Michele ripartisse per il suo ultimo ritorno in Germania, il bambino ossuto ricorda di averlo atteso per ore con Chiara: rimasero insieme per tutta la mattina dietro i vetri del balcone a guardare i tornanti da dove sarebbe spuntata la corriere azzurra. Finalmente, con lentezza apparve come un piccolo bruco celeste e lentamente si avvicinò fin dentro il borgo. Non gli corsero incontro alla fermata della corriera, ma lo aspettarono trepidi davanti all’uscio di casa.
Svoltando l’angolo apparve: coi suoi capelli neri anni sessanta pieni di brillantina, con la sua cravatta nera sottile, il suo vestito nero alla alvis e le sue bellissime scarpe nere a punta con i lacci ai lati in quattro fori per scarpa. Alto, bello, apparve come un angelo col suo ampio sorriso, cosi che potesse nascondere le ali: abbagliandoli.
Gli corsero incontro e diede al bambino ossuto il pallone da calcio a pentagoni bianchi e neri. 
Dopo questi sprazzi di sogno il bambino ossuto null’altro ricorda di lui: ricorda la voce, il profumo e i suoi occhi uguali a quelli della mamma che sono i suoi.


“A nonno Rocco per il giorno del nulla”


Ecco
Il tuo grande mare 
ha fermato le sue onde 
e le tempeste passate
hanno abbandonato scogli tormentati.

Acqua della mia acqua 
Il pensiero del tuo essere 
ha corso nel mio tempo
dritto come un filo
me ne accorgo oggi 
mentre perdo la tua immagine.

Cadde su di un fianco, come un airone dall’ala spezzata o come un torero nell’arena alle cinque della sera.
La polvere non ebbe la sua faccia; i grandi guerrieri sono risparmiati dall’ultimo oltraggio della faccia nella polvere.
Lui: la quercia dalle salde radici, il punto saldo dove mai nessun vento ha potuto scavare la propria tana. 
Cadde, lui: su di un fianco, senza un gemito e senza voce.

Lo aspetterei ancora, all’uscita del sottopassaggio della stazione alle dieci in punto, quando l’espresso Ascoli Foggia, sferragliando stride la sua corsa fermandosi in un rantolo di metallo. Lo vedrei arrivare, con passo svelto e sicuro nelle sue scarpe di cuoio nero lucido anni trenta ben allacciate, girando l’angolo del sottopassaggio. Il cappello di feltro a falda larga, ben calcato un po’ di traverso sugli occhi e la sua giacca di lana nera con l’impermeabile piegato sul braccio; mentre nell'altra mano stringe la sua vecchia borsa di pelle nera sgualcita e sdrucita da troppi viaggi. Lo saluterei sulle scale ascoltando la sua voce affettuosa che mi chiede di me passandomi la borsa: parlando di tutto e di niente e saremmo insieme un albero con le sue radici.
Io sono l’unico nipote che vivendo sulle stesse colline dove ha vissuto lui, ho potuto conoscerlo per più tempo, assorbire il suo essere e far tesoro del suo cuore.


La terra che partorisce è sempre madre dei suoi figli, anche quando essi vanno lontano a cercare altre terre che non sono materne, perché madri di altri figli.