(17/07/2018)
TORRONE DI BENEVENTO


di MaestroCastello

TORRONE DI BENEVENTO 
Per venire da Roma a Sant'Agata imbocco l’autostrada Roma-Napoli e, giunto a Caianello, prendo per la statale 372, detta anche Telesina, che porta a Benevento nel Sannio. Guardo i vigneti rigurgitanti di vitigno aglianico, i campi messi a tabacco e la folta vegetazione che mi fa pensare immancabilmente agli antichi Sanniti che studiammo alle medie e alle “forche caudine” che fecero subire ai Romani. Dopo un percorso a velocità ridotta e controllata, si staglia all'orizzonte la città di Benevento, un tempo Maleventum; cambiò nome, appunto, in seguito alle forche di cui dicevo prima. Benevento mi ricorda anche il Seminario Maggiore e la strega di Beneventoun : un liquore molto forte dalla bottiglia dall'etichetta giallina e, soprattutto, penso al torrone che mangiavamo da bambini e che a Sant'Agata chiamavamo " la cupèta".
Questa leccornia si trovava sulle bancarelle che i forestieri attrezzavano in piazza durante la festa patronale o festa grande, come la chiama Toni Santagata in una sua canzone.
Che bello il nostro dialetto che trasforma non a caso il torrone in “cupèta”, infatti il suo nome deriva dal latino "cupida" che vuol dire "desiderata". La copeta "cupida" o "cupita", che veniva desiderata per la sua bontà, viene citata da numerosi scrittori latini, tra cui Tito Livio, la cui paternità è attribuita appunto ai Sanniti.
La copeta viene riconosciuta come l'antenato del torrone di Benevento: un torrone bianco molto compatto insaporito con nocciole, mandorle e, molto spesso, pistacchi. 
Molto buono è il "torrone allo strega" che trae il suo nome dall'omonimo liquore locale.
Tornando ai ricordi infantili e alle feste di paese, sulle bancarelle trovavano posto, oltre alla cupèta, il croccante fatto di zucchero e mandorle, le arachidi abbrustolite che noi chiamavamo noccioline americane, re fascianèrre ovvero carrube essiccate, lacci di liquirizia, lupini, semi di zucca, semi di pistacchio.
Le cose che mi incantavano più di tutto era "lu rutiélle" e i fuochi in piazza.
Lu rutiélle era una specie di roulette artigianale che un ameno signore, Ròn Gaitàne, praticava in piazza durante i giorni di festa. Un'asta che aveva alla punta una pellicola, girava su un'asse di legno numerata. Tra un numero e l'altro c'erano dei chiodi, in modo che l'asta, una volta che si fermava, si posizionava esattamente su di un numero preciso. I numeri bianchi si alternavano a quelli neri, propio come la roulette e la gente puntava, chi 50 e chi addirittura 100 lire che erano tante per quei tempi. 
I fuochi in piazza erano il momento conclusivo e, per me, più emozionante della festa. A mezzanotte spegnevano le luci in piazza ed iniziavano i fuochi pirotecnici, attaccavano a sparare la santabarbara apparecchiata sulla piazza nuova. 
Noi, con le mai sulle orecchie, sembravamo spaventati dai botti, ma in cuor nostro desideravamo che i botti durassero all' infinito. 
La mia attesa era per i colpi finali che solitamente erano tre, uno distanziato dall'altro. 
L'ultimo creava attesa e delusione perché si concludeva la festa e sapevamo che ci sarebbe stato da aspettare un intero anno.
“Da noi la festa viene na volda l’anno”, lo dice anche la canzone!

Giovanni.