(27/06/2018)
I POETI SANTAGATESI E IL RITORNO


di Mario De Capraris

                                                                                                                            

Il ritorno al paese natìo è un test. È nel momento del ritorno che si misura il proprio rapporto con le radici. Ci sono due poeti santagatesi che esprimono in modo particolare cosa significa questo momento. Essi sono Gino Marchitelli e Gerardo Maruotti, i quali nelle loro poesie ne tracciano un quadro bellissimo, seppur amaro. Entrambi, quando tornano, non si lasciano andare a commenti estasiati, ma sono assaliti dal magone, come se si trovassero a fare i conti col passato. Trovarsi di fronte al paese, invece di renderli felici, li mette in crisi. Nel loro animo tutt’assieme c’è un tale rimescolamento di sentimenti che non sanno esprimersi se non in toni sofferti. Provate a leggere “E ije torne” di Marchitelli che, mentre assiste alle varie scene che gli si presentano sotto gli occhi, prova “sèmbe la stessa pena”.

Maruotti invece non si sofferma nemmeno sulle immagini che offre il paese, ma va dritto spedito davanti alla porta della casa paterna e trova il momento opportuno per sfogarsi:

“Un esilio la città!”

E si rivolge direttamente al padre, quasi contestandogli di averlo fatto studiare perché forse, se non avesse studiato, sarebbe rimasto in paese:

“Tu che volesti che io studiassi tanto, un esule del figlio tu ne hai fatto.”

Non si fa scrupolo di dichiararsi esule sebbene nel tempo nella città che lo ha accolto avrà sicuramente messo radici. Sempre davanti alla porta chiede, anzi ordina, al padre di farlo entrare:

“Apri la porta!” e aggiunge “Accogli un disilluso!”

E dicendo “un disilluso” lascia intendere che, se aveva nutrito qualche illusione che la città potesse eguagliare il paese natìo, ciò non è avvenuto.

Ma evidentemente il padre si attarda a farlo entrare, mostra di non comprendere ciò che si agita nell’animo del Poeta, il quale, risentito, così lo apostrofa:

“Non vedi con quanta ansia son venuto?”

E poi lo rivela senza mezzi termini, visto tutto il sovraccarico di sentimento accumulato durante “l’esilio”:

“Io sono venuto per piangere un’ora! Apri la porta al prodigo figliuolo!”

Nel paragone evangelico, il figliuol prodigo torna a casa dopo aver sperperato le sue ricchezze. Allo stesso modo il Poeta è ridotto ad aver esaurito lo sforzo con cui era riuscito a tenersi lontano dalla sua terra. Poi ecco la dichiarazione che farebbe ognuno che è emigrato: quella di voler tornare tra le proprie strade, i propri alberi, nella contrada della sua campagna:

“Io voglio ritrovare la mia pace pei vichi e per le balze del paese, tra i miei ulivi……”

Tutti quelli che tornano danno l’impressione di aver peregrinato tutto il tempo e nel momento che hanno approdato alla loro Itaca non hanno altro bisogno che di ritrovare la pace, come se tutto ciò che hanno trovato al di fuori del paese ha significato tutt’altro che la pace e solo i luoghi dove si è nati, per il solo fatto di viverci, senza ombra di dubbio daranno la vera serenità.