Alle volte non capivo perché i vecchi si ostinavano a ripetermi che un giorno sarei andato via, avrei dimenticato loro, il paese e i luoghi dove ero nato. Non capivo perché ci si dovesse allontanare dalle campagne, dove c’era tanto da lavorare che non c’erano braccia abbastanza, dove c’era tanta gente, tanti bambini, i campi pieni di mietitori, le aie zeppe di covoni, le masserie brulicanti di campagnoli quando arrivava la trebbia, la festa della trebbiatura, i sacchi di grano accatastati, i camion che venivano a caricarli.
Sicuramente la città doveva essere deserta.
I vecchi parlavano a noi ragazzi nelle sere d’estate, quando le ultime fatiche del raccolto erano terminate e ci si poteva lasciar andare alle conversazioni. Raccontavano e fantasticavano del nostro futuro in città, come sarebbe stato. Noi che ascoltavamo ci prendeva un groppo alla gola al pensiero che, senza la benché minima logica, avremmo lasciato il nostro mondo. E quando dicevamo:“Anche se ci dovremo andare per forza, certo non ci resteremo a lungo” loro ridevano. Chissà perché, erano convinti che non si potesse tornare indietro. L’idea di partire e lasciare tutto non era allegra, ma talmente era stata ripetuta che la ritenevamo un destino inevitabile, un’operazione necessaria – come dicevano – per stare meglio.Mi chiedevo come avrei fatto a vivere solo col ricordo della vigna, dei campi, degli odori di casa mia. Con Gerardo spesso salivo nel punto più alto del paese, cercando di riuscire a vedere Foggia, ma mi apparivano solo i paesini circostanti, la vastità dei terreni, il noto profilo delle colline, tutta la mia terra da cui un gioco crudele del destino voleva separarmi. Così avvenne che una mattina, mentre – giusto per rendere il momento più allegro – la pioggia veniva giù violenta da certi nuvoloni neri, salimmo sul vecchio pulman, di quelli dove, di fianco all’autista, c’era una specie di cassapanca d’acciaio che era il motore. Partimmo da laggiù, dal garage di Barbato. I parenti, il mulo poco distante in attesa di andare in campagna, stettero sotto l’acqua, coi pochi denti a loro disposizione bene in mostra, a sorridere per la nostra partenza, come se ci fosse qualcosa da sorridere. Ce ne fu persino uno - si vede il più intelligente del gruppo – che mi disse: “E così, hai deciso di andare in città!”Mancavano i vecchi, che forse ridacchiavano da qualche parte, perché la patata bollente, che loro si erano evitati a tempo debito, erano riusciti a scaricarla a noi. Il pulman si avviò cigolando, i parenti salutarono agitando braccia e mani – a quello più intelligente il braccio gliel’avrei stretto intorno al collo – poi sempre il pulman, traballando, scivolò disinvolto tra i tornanti a strapiombo e io disinvolto mi misi l’anima in pace che ci saremmo trovati sicuramente in fondo al burrone.Ma passammo le curve e gli strapiombi, e, guardando dietro, il paese appariva sempre più lontano. Sul sedile davanti ci fu uno che per allietarci il viaggio non fece altro che parlare dell’”incrocio della morte”, un incrocio della provinciale con la statale, dove pare che le macchine per mancanza di visibilità andavano a scontrarsi e la gente moriva.Quello si dilungava nella descrizione delle morti cruente e io pensavo, se ci fosse stato lo scontro, ai commenti, alle scritte sui giornali: “Ragazzi al loro primo giorno di scuola morti sul colpo” e mi immaginavo lo strazio dei parenti a piangere con le bocche spalancate e i pochi denti a loro disposizione bene in mostra, il mulo vicino, e l’intelligente avrebbe detto: “E così, hanno fatto scontro!” Arrivammo all’incrocio e anche lì fui rassegnato. Dopotutto avevo superato gli strapiombi. Ma attraversammo senza spargimento di sangue e il pulman si mise a filare veloce che vibrava tutto e dava l’impressione che da un momento all’altro avrebbe perso i pezzi e saremmo rimasti a strisciare per terra. Finchè apparve da lontano, minacciosa e incombente, la città, coi suoi palazzi che si ergevano alti e dritti, il suo aspetto per noi così insolitamente piatto. Dunque era tutto vero: la città esisteva veramente. Chissà perché fino all’ultimo si era sperato l’insperabile e cioè che fosse tutta un’invenzione dei vecchi. Ormai non c’era scampo. Potevamo andare a farci inghiottire. Per come eravamo rassegnati, la città poteva essere anche un forno crematorio, ci saremmo fatti cremare serenamente. Stavamo arrivando e non so che avrei dato perché il pulman non fermasse la sua corsa e proseguisse all’infinito. Poi nella camera mi assegnarono il lettino, ma pensai: “Sì, va bene, tanto poi tornerò a casa”. E ho detto sempre così. Per anni. Per cinquant’anni. E non sono ancora tornato.
L’intelligente direbbe: “E così, non sei più tornato”.
Ogni estate, che mi ricordo delle fatiche terminate nelle campagne, il pensiero va a quei vecchi che odiammo a lungo perché li ritenemmo artefici del nostro allontanamento, mentre invece ci mandarono via saggiamente, perché sapevano quello che di lì a poco sarebbe successo nelle campagne e cioè che non vi sarebbe rimasto più nessuno, sparito il lavoro che venne meccanizzato, spariti i contadini, i mietitori, le trebbie, i covoni. Le masserie abbandonate, le porte sprangate senza nessuno dentro. I vecchi con lucida lungimiranza avevano previsto tutto. Tranne che dimenticassimo quei posti, che anzi sono rimasti il richiamo della foresta.
Mario De Capraris
“… io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire: ‘Conoscete quei quattro tetti?’, ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla.”
Cesare Pavese