Con questo pezzo mi rivolgo a quei santagatesi che hanno vissuto e ricordano quanto dirò appresso, che dovrebbe, spero, contribuire a rinfrescsare loro la memoria, senza, con ciò, non pensare anche a tutti coloro nati in epoche successive, che potrebbero trovare in queste quattro righe l’occasione per conoscere uno spaccato di vita santagatese appartenente al passato, una pennellata del costume paesano di quel tempo.
Tanto per non cambiare, ci troviamo nel dopoguerra, qualcuno mi potrebbe rimproverare del fatto che io mi riferisco sempre a quel periodo, ma, a parte che si tratta di momenti da me vissuti in prima persona sulla mia pelle, c’è anche da dire che parlo di un periodo particolare per la comunità santagatese, durante il quale ed in breve tempo è avvenuto in maniera febbrile uno stravolgimento epocale del modus vivendi di tutto il popolo italiano.
In quel tempo, direbbe il prete sull’altare, le vie di comunicazione ed i mezzi pubblici erano quelli che ognuno può immaginare, strade rotte, piene di buche, non asfaltate, dissestate, con frane a dritta ed a manca, su cui le autocorriere del fratello di mia madre, il Capitano di Industria, Ascanio Barbato, titolare della ditta omonima, che effettuavano il collegamento giornaliero fra S. Agata e lo scalo ferroviario di Candela, nonché quello con Savignano Irpino, di cui è meglio non parlare, se la vedevano veramente brutta, così come quelle dell’altra ditta operante nella zona, Lapalorcia di Candela, che effettuavano altri itinerari.
Per fortuna mio zio poteva disporre in corso Silvio Volpe di un ampio e spazioso garage, in grado di ospitare non solo molti mezzi, ma anche una attrezzatissima officina meccanica, in cui operava un manipolo di meccanici di buon livello, capaci di effettuare tutte le riparazioni dei guasti che si verificavano in itinere, grazie anche alla maestria di un capo garage di provata competenza di nome Oscar Barbarito; con il contributo di un mio carissimo amico, il m.llo Leonardo Morese (“Sciancone”), ho ricordato le loro generalità: Pasquale Pietrocola (“Canesca”), Mario Zocchi, Gerardo Zenga, Antonio Fabiano, Antonio Mariconda (“Iucce Scialone”), Loreto, Ciccillo Cela, che perse un occhio e finì con diventare maestro elementare, sperando di non avere dimenticato nessuno.
Parliamo, ora, del cosiddetto “viaggio”, che più disastroso di così non poteva essere, innanzi tutto perché si partiva la mattina presto, le sei al massimo le sette, e d’inverno era ancora buio; prima di avviarsi l’autista, da buon criminale, parcheggiava per molto tempo la corriera sotto l’androne che collegava la strada con il cortile interno del garage con il motore acceso, sì che i gas di scarico di una puzzolentissima nafta costituivano un buon viatico per affrontare il viaggio in maniera ottimale, visto che lo stomaco già dava segni di sofferenza in quella specie di tunnel.
Questo viaggio fino a Candela, con le buone o con le cattive, andava comunque affrontato, anche perché non c’erano alternative, o ti mangiavi quella minestra o ti buttavi giù dalla finestra, ma tutto sommato le cose andavano meglio di come sarebbero potute andare per due motivi: primo perché, per quanto il mezzo fosse affollato, io e mia madre viaggiavamo sempre seduti, in quanto il primo sedile, contrassegnato appunto con il numero uno, era riservato ai familiari del proprietario, per cui a mia madre il posto era assicursato, mentre io, sia per starle sempre vicino (non ci separavamo mai), e sia per avere una visuale libera, mi appollaiavo su una specie di grosso cilindro che stava fra l’autista ed il sedile di mia madre, il vano motore, in sostanza. Il secondo motivo era del tutto casuale, nel senso che quasi tutto il tragitto la corriera lo percorreva in discesa, per cui era sottoposta a minori sforzi, e quindi con maggiori possibilità di giungere a destinazione, anche se ad un certo punto doveva passare su un ponte, il famoso “ponde re fierre”, sempre a rischio di crollare sul sottostante torrente Carapelle, a vocazione costante di straripamento; in quegli anni fiumi, torrenti, “jumère e jumarèrre” erano sempre strapieni di acqua.
Di tutt’altra musica, invece, era il viaggio di ritorno, soprattutto per il super affollamento del mezzo; infatti anche una specie di bagagliaio, che si trovava nella parte posteriore, destinato a trasportare i sacchi della posta, da cui il termine di “postale” con cui si usava chiamare queste corriere, veniva letteralmente preso d’assalto ed occupato, al punto che le due porte restavano aperte, mentre dietro lo chassis quasi sfiorava la carreggiata.
Non ci vuole molto a capire che in queste condizioni, soprattutto nel periodo estivo, l’aria era irrespirabile, per la presenza anche di spesse nuvole di fumo (fumavano tutti) sprigionate da sigarette maleodoranti, le famigerate “Alfa”, che sembravano contenere sterco di cavallo piuttosto che tabacco, tanto che messe a raffronto con le profumatissime sigarette delle truppe americane di occupazione, era come passare dalla stalla alle stelle; insomma una vera e propria camera a gas su quattro ruote, per non parlare dell’igiene che a quei tempi era quella che era, o forse, o senza forse, non c’era proprio!
I veri guai, però, cominciavano quando la postale doveva affrontare le salite, alquanto ripide pure, a cominciare dal bosco delle Cesine, dove la carrozzabile, già di per sé stretta e tortuosa, era costituita da numerosi tornanti, alcuni anche a gomito; la situazione diventava critica alle tre curve “re la Pelecerra”, dove poco ci mancava che bisognava scendere per spingerla, oltre che per alleggerirla, con lo sforzo finale dopo il muraglione “re la Folge”, dove davvero il mezzo ansimava, accumulando il massimo del ritardo immaginabile.
Come era nella logica delle cose, il nostro pendolarismo non terminava a Candela, dove ci accoglieva, si fa per dire, una stazione ferroviaria che più scalcagnata di così non poteva essere, fatiscente, fredda, umida, nebbiosa, sempre circondata di pozzanghere a non finire, dove prendevamo uno sgangheratissimo treno proveniente da Potenza, al cui confronto una tradotta militare avrebbe fatto senza meno più bella figura.
Anche il treno, manco a dirlo, era affollatissimo, per cui si viaggiava sempre in piedi, il che rendeva ancora più faticoso il viaggio, che durava complessivamente oltre due ore, anche perché il treno effettuava una infinità di fermate, pure quando non erano previste, per lasciar salire con grande magnanimità del macchinista altre persone ed animali.
Ricordo che una volta alla stazione di Ascoli Satriano salì un pastore con addirittura una pecora, probabile vecchia conoscenza del macchinista (la pecora), rendendo ancora più eterogenea la massa dei viaggiatori di quel treno, ognuno dei quali si fece subito in quattro per cedere il proprio posto all’ovino, caso mai degno di maggior rispetto che nei riguardi di una donna priva di posto.
In un’altra circostanza avvenne un episodio comico: tornavo sempre con quel treno a Sant’Agata insieme a mia madre (naturalmente), la quale portava nel bagaglio una sveglia dotata di una suoneria molto forte ed un po’ particolare; ad un tratto la sveglia si mise a suonare, ricreando tutt’intorno la psicosi dei bombardamenti, in quanto, non avendone ancora smaltito del tutto le scorie, il primo pensiero di tutti corse subito alle sirene di allarme aereo.
La cosa, poi, finì in una risata generale.
Dedico questi miei ricordi alla memoria di mia madre, N.D. Nunzia Barbato.
Buona lettura, Alfonso.