Siamo a Carnevale, ragazzi e giovanetti si aggirano nel paese intonando << Lu cupe cupe » il canto onomatopeico che accompagna il caratteristico suono prodotto da un barattolo coperto da un pezzo di stoffa che viene compressa da un bastoncino fatto abbassare e sollevare con movimenti ritmici. Altri gruppi si susseguono, o vanno a trovare gli amici raccontano intelligenti barzellette, ricevono spesso << li salzicchie », come per rispettare una certa consuetudine e poi rincasano contenti di aver compiuto un rito necessario a mantenere in vita una tradizione locale. Possono nel passato aver dato splendore a Venezia, a Firenze, a Viareggio e a Roma, conme in Francia e nella Spagna gli spettacoli del carnevale con le loro stupende sfilate di carri; ora tutto sembra finito e qualche tentativo di dar vita a quanto sta tramontando risulta sempre più vano ed inefficace. Il lusso s0ffoca la semplicità, la spontaneità, la naturalezza di certe feste che hanno radici profonde nella storia dei popoli. << Semel in ann0 licet insavire », una volta all`anno è lecito dare libera manifestazione all`allegria, senza le limitazioni imposte dalle convenzioni sociali che spesso si basano sull’ipocrisia. I lupercali si celebravano verso il 15 febbraio fin dai tempi antichissimi, vari secoli prima dell’era cristiana, e avevano lo scopo di augurare la fecondita della natura e il progresso alle persone che si incontravanr e che venivano toccate sulle spalle o sulla mano con strisce di pelle di capra. I celti, vari millenni or sono, nella folta foresta della Gallia, al chiarore della luna, al solstizio d`inverno, facevano offrire dai Druidi, durante le feste, rami di querce e vischio a tutti i partecipanti. La festa, che ricorda assai da vicino il nostro carnevale, è quella che si celebrava in onore di Saturno, antico dio romano delle seminagioni. Allora, come ora a S. Agata, il re dei saturnali era rappresentato da una grottesca figura di paglia che veniva processata e messa a morte fra schiamazzi e finti lamenti nell’intento di voler rappresentare l’incamazione della divinità della vegetazione annualmente uccisa e rinascente su cui la Comunità umana scaricava tutti i mali. Danze, maschere, lanci di confetti e di coriandoli volevano rappresentare, come ora, riti necessari a propiziare la fertilità. Questa diffusa festa popolare continua a celebrarsi là dove le mode occasionali, il lusso la frenesia del piacere hanno alterato l`integrità dei costumi. Persiste certamente in forma diversa, perché diversa è la nostra mentalità e rappresenta comunque una esigenza dell’uomo di esprimere la propria gioia di fronte alla natura che comincia a dare i primi segni di risveglio in prossimità della pre-primavera. E` la speranza di rinascita alla vista del grano che, dopo essere marcito nella terra, rispunta annunziante messe rigogliosa. E` la fiducia nella vita che si accresce alla vista delle gemme dei mandorli e degli alberi da frutta in genere, già pronti a dare fiori meravigliosi. E` l’attesa della quaresima, e quindi della Pasqua, che fa cantare gioiosamente il giovine santagatese mascherato, inconsapevole continuatore di una vecchia tradizione. In lontananza si perde lo scherzoso e sempre caro ritomello: << dammi la parte ru lu gruffèlere!! ». Lu cupe . . . cupe Aggi cantéte sòpe a na finestra lu cupe cupe vole la minestra; Aggi cantète sòpa a na cucina lu cupe cupe vole la furcina; Ave ritte zi Andreia sceme a Foggia a treia a treia Ave ritte zi Filèse me rè nu poche re chèse; Ave ritte Taresucce me rè nu buccherucce; Canta la gallina e còtela li rine pe dé la bona sera a re signurine; Canta lu galle e còtola la còre pe lassé la bona sera a stì signùre.
Autorizzazione del Tribunale di Foggia n.20 del 20 settembre 2006
Direttore Responsabile Samantha Berardino
Tutto il materiale presente in questo sito è strettamente riservato - è vietato l'utilizzo dei contenuti del sito senza l'autorizzazione dei gestori. Privacy Policy | Cookie Policy