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Artemisium News
07/07/2015
LE ECCELLENZE CHE HANNO ONORATO SANT'AGATA : GINO MARCHITELLI : L'UOMO L'ARTISTA IL LETTERATO
di Dora Donofrio Del Vecchio
 (Sant’Agata di Puglia, 11-11-1910; Roma 01-12-1996) 

Gli studi

Gino Marchitelli nacque a Sant’Agata di Puglia l’11 novembre 1910. Frequentò a Sant’Agata di Puglia le scuole elementari ed i primi tre anni di ginnasio presso mons. Donato Pagano. Fu iniziato allo studio del greco dal prof. Francesco De Carlo. Già da bambino rivelò spiccata attitudine al disegno, ed una ventina di profili di vecchi e giovani da lui eseguiti a matita attirarono l’attenzione dello scultore Beniamino Natola di Foggia, progettista della Casa del Sacro Cuore di Gesù di Sant’Agata di Puglia, il quale invitò il giovane a frequentare il suo studio. Nel 1926 il Marchitelli si trasferì a Napoli, ove completò gli studi ginnasiali per iscriversi al Liceo artistico. Nel 1933, dopo aver attentamente vagliato la possibilità di iscriversi all’Accademia di pittura, trovò più congeniale iscriversi alla facoltà di Architettura. Si laureò nel 1938, nel ’39 superò l’esame di abilitazione all’esercizio professionale, ed era già impegnato in due studi di ingegneria a Napoli. Nello stesso anno si trasferì a Roma. Visse con difficoltà gli anni terribili della guerra e del dopoguerra, e solo dal 1950 poté esercitare la professione libera.

Come progettista e direttore di lavori ha realizzato oltre quaranta fabbricati nella sola città di Roma, più di una ventina in varie regioni d’Italia. Nel suo paese natale ha lasciato importanti testimonianze della sua professionalità nella ricostruzione della chiesa dell’Annunziata, nel restauro e riattamento della Casa del Sacro Cuore di Gesù, della Biblioteca e del Teatro Comunali, nei restauri della chiesa matrice di S. Nicola di Bari.

L’attività letteraria

Con la pittura e l’architettura, Gino Marchitelli ha coltivato da giovane età l’amore per gli studi letterari, la poesia, il romanzo, la regia teatrale, la commedia, la ricerca linguistica dialettale, amore che gli consentì di pubblicare tre raccolte di poesie dialettali: 795 sul mare (1937), E ije torne (1973) Piézze re ciéle (1987); le novelle sotto il titolo 72 rate di amore (1933), il romanzo umoristico Senso rotatorio (1934), il Vocabolario del dialetto santagatese (1983), il volume Teatro Santagatese (1987).

Delle opere inedite finora abbiamo potuto consultare L’arca del monte Cimino, un romanzo manoscritto di circa 200 pagine: è la storia di una giovane fidanzata con un aspirante pittore, e la vicenda si svolge sui Monti Cimini presso Roma. Un romanzo a valenza autobiografica, che merita molta attenzione e che speriamo venga pubblicato, perché sarebbe ben accetto al mondo della cultura.

A 18 anni, dopo la lettura delle Novelle rusticane di Giovanni Verga, Gino Marchitelli scrisse 14 novelle che diede al fuoco ritenendole di scarso interesse.

A 27 anni pubblicò la prima raccolta di poesie con i tipi della tipografia della Casa del S. Cuore di Gesù di Sant’Agata di Puglia, 795 sul mare (1937).

Erano sonetti, ad eccezione delle ultime due poesie scritte in versi sciolti settenari ed endecasillabi, per le quali si era ispirato al grande Leopardi, poeta che lui predilesse. Era la prima volta che i santagatesi “videro stampato il proprio dialetto”. Il libro fu accolto con “compiacimento suscitato, secondo l’autore, dai quadretti di colore locale”, ma anche da “qualcosa di più, se a distanza di tanti anni quel volumetto” di 60 pagine era ancora richiesto.

Dopo 35 anni, nel 1973, la seconda raccolta E ije torne, ancora con la tipografia della Casa del S. Cuore. Questa raccolta, che si pregia della presentazione di Enzo Contillo, critico letterario, poeta, saggista, comprende poesie scritte in epoche diverse, “ma sempre suggerite da quell’aria santagatese che sono i luoghi le persone le vicende le cose che, pur ritrovandole nei saltuari ritorni in paese deformate e consumate dal tempo, continuano a mantenere intatta la carica dei sentimenti di cui sono permeate”. La gemma di questa raccolta è la lirica Re mmene toje, dedicata alla mamma morta.

In quest’opera l’autore ripropone nove delle poesie della prima raccolta.

Per completare “il trittico di poesie dialettali, nel 1991, a diciotto anni da E ije torne, vede la luce la terza raccolta di liriche sotto il titolo Piézze re ciéle. Quest’ultima, che riunisce le poesie scritte tra il 1979 al 1989, ha in più, rispetto alle precedenti, la traduzione in italiano. Questa le fu suggerita dalla moglie Ester, allo scopo di far leggere le liriche anche a chi il dialetto santagatese non conosce, in particolare ai figli ed ai nipoti dei santagatesi emigrati. Una traduzione in forma non poetica ma letterale, che non lo entusiasmò perché, a suo giudizio, riduce la freschezza e la sonorità dei versi.

L’opera attesta le conquiste dell’autore nel campo della fonetica e della sintassi del dialetto santagatese, cui era giunto dopo sette anni di studio, ascoltando contadini e gente colta di Sant’Agata, per cui poté adottare una grafia diversa da quella delle prime due raccolte di poesie, ed è la stessa che usa per le commedie e per il Vocabolario.

Alcune di queste poesie erano già state pubblicate sul numero unico di Incontro dei santagatesi residenti a Roma e dall’Antologia Cento e passa poeti dialettali (Todarana editrice, Milano).

Tra la seconda e la terza raccolta di poesie pubblica, nel 1983, il Vocabolario del Dialetto Santagatese, Edigrafica Aldina, Roma, a spese del Comune di Sant’Agata di Puglia ed il Teatro Santagatese, nel 1987, con la stessa Casa editrice, a spese dell’Amministrazione Provinciale di Foggia. 

Il Teatro santagatese

Il Teatro santagatese raccoglie cinque commedie: La luce a uòglie, Lu struculature, Avéva esse, Mèglie chiange apprima, Lu bbene che te voglie, La cascia. Con queste commedie, l’autore spera di essere riuscito “a raggiungere per mezzo dei personaggi che le animano e delle situazioni in cui essi agiscono, l’intento di porre nella giusta luce l’animo della gente santagatese con i suoi sentimenti, positivi o negativi, peculiari della natura umana: cattiveria e bontà, avaria e generosità, umiltà e superbia, rassegnazione e lotta per un riscatto sociale, egoismo e solidarietà.

Un piccolo mondo in cui vivono sentimenti senza tempo e di tutti gli uomini, anche della sua gente, che sa amare, gioire, soffrire, perdonare, avere fede in Dio.

Le commedie sono state rappresentate più volte, e con successo, dalla Compagnia teatrale santagatese, che lui sostenne ed incoraggiò in considerazione della tradizione teatrale del popolo santagatese, che non doveva andare dispersa ma valorizzata nella continuità. La luce a uoglie nel 1984 vene rappresentata anche al teatro Giordano di Foggia. 

Il poeta-pittore nel dichiarato amore per la terra natia

Dopo aver letto poesie e prose di Gino Marchitelli mi son chiesto se sia nato prima il pittore o prima il poeta. Ma scindere le due arti può essere solo una distinzione di comodo e falsante, perché il limite tra loro in effetti non esiste, e vanno viste in una sola unità interpretativa.

L’abilità artistica agevola il poetare, specie quando nel ritorno alla terra il poeta ne deve rivisitare luoghi, riascoltare voci e palpiti, coglierne colori e suggestioni. Ed è un poetare che si fa fresco e pittorico, e crea immagini vive, di rara bellezza e straordinaria intensità descrittiva, esaltata dalla sonorità ed immediatezza che solo il dialetto sa dare.

Se dovessimo cercare fonti e stimoli alla sua arte dovremmo prendere per buona la sua indicazione: Verga, Belli, Trilussa, Leopardi. Ma la sua poesia vive di forza propria ed attinge in quel recupero costante della memoria, in quell’andare e riandare ad affetti sicuri, che anche in età adulta gli danno conforto e protezione.

E’ il ritorno alla sua terra natia che lo appaga, alla “madre terra”, lì è la sua infanzia, lì la sua primavera carica di sogni e di speranze, lì la pace tra i suoi morti.

Il suo andare per il mondo accresce il desiderio di ritornare a quère prète andhiche/ a quère chèse vasce/ a lu paèse mije andò nasciétte/. Sule accussì me pozze arrecurdè/com’éja la pèce.

Vuole salire ansante le erte scale verso una casa che l’aspetta, a respirare antichi odori, a riappropriarsi di antichi sapori, ad ascoltare favole senza tempo che la Preta re lu monde, che sa tutto di tutti i santagatesi, lì da secoli, racconta.

E’ un dichiarato amore per la terra che gli ha dato i natali, Sant’Agata di Puglia, terra di cui ha immortalato il grappolo di case raccolte in un solo affetto, la fisionomia urbana, le stradine, i luoghi d’incontro, dello svago e del dolore: Paèse mije/paèse miste ngimma a nu spundone/appise cu nu file a qualche nnùvela…/chi hà resperète ra uaglione/l’aria re rrò ngimma/ru ssèpe ch’éja ngatenète/sèpe che ng’éja na cosa che l’afferra,/che crére re lassarla/quanne parte/ma che se pòrta appiérse pe lu munne (Paese mije). Stessi motivi che ispirano molte altre altre liriche, come E ije torne, Ma cche ne séje, Cetà.

Ne ha tramandato le voci, gli scampanii festosi che ti riportano subito ai mattutini di Natale, al profumo di susemiérre delle dolci atmosfere domestiche, di tempi in cui tutto era semplice e buono (Cambène). E ti ritrovi in mezzo alla festa tra bagliori di un favone che si riflettono negli occhi luminosi di ragazzi felici e schiamazzanti (éja quiste lu favone cu re vvambe/che so arrevète ngimma/e che s’allònghene cu re scaterre a mùseca per l’aria/c’anghiànene ch’angiànene/se stùtene,/e se mo huarde/so revendète stelle ndà lu ciele./Attuòrne, come a grène re na cròna,/mo tutte li uagliune re la chiazza/cu l’uocchie spalanghète /cu quere cosse e quere facce rosse/ sonne come ngandète ra stu ffuoche/c’avvamba tutte quande. (Lu favòne).

Ha immortalato le tradizioni religiose (San Mbiése, Natèle), i costumi di vita (Tanne a li tiémbe re re mmandelline), i comportamenti e modi di relazionarsi di ricchi e poveri (La parendèla, Mmiézze a la chiazza).

Ha fissato con straordinari tocchi di colore le albe ed i pittoreschi tramonti dietro Monteleone, i paesaggi innevati e quelli grigi e pacati delle nebbie, le vigne rosse a novembre; i campi verdi e color oro, i cieli azzurri che si riflettono nei pozzi (Rapèste a marze, Piézze re ciéle, Quer’ora, Panne stise).

Ha dato voce a persone e personaggi che hanno fatto la storia di Sant’Agata di Puglia, piccoli e grandi, Anduniucce l’acquaiuole, Peppucce lu bannetore, Zass, Gelòrme lu crauniére, Ualìcchie lu trainière e ron Dunato, ronn’Alfonze, tutti con pari dignità.

Ha dato ascolto al silenzio delle case senza gente, ov’era passato il dolore della morte o del distacco (Po’ me reciérne, E Rrocche nu ndurnèva, A magge la mmatina).

Sofferenza gli hanno comunicato quegli usci coperti da ragnatele, ove un cencio nero appeso ad un chiodo arrugginito sventolando al vento raccontava povere cose re nu tiémbe amère quanne lu sole se verèva nasce/scurlète già ra n’ora ra la falge, quante se scèva fore a coglie alive/re mmène già aggranghète pe la via./Po viénene li figlie…Sì, poi vengono i figli emigrati “Mamma che fèje si rrumèsa sola”/”Tata mo chi te cura, scemennille”/ E chiùrene la porta/nu zénzele re lutte sculurute/sbatte a lu viende com’a nu vattaglie/nd’a la cambéna sorda re lu tièmbe. E va via con loro anche il genitore superstite che invoca di ritornare in paese per essere sepolto coll’estinto in quella terra che insieme zapparono: Ca nziéme stiémme/nziéme sciémme nnanze/nziéme ne repusème fenalmende/sotte a la stessa terra che zappamme. (Po viénene li figlie).

Anche lui emigrante, cammina per il mondo per ritrovarsi sempre lì, in quell’angolo che l’ève ngàtenète pe na vita…n’angule re terra mèje scurdète …E se spunterà un fiore tra quelle pietre éja lu core mije rumèse rrò, rumèse pe sendì/li hrirrele re notte,/re rundenelle la matìna priéste,/re vvòce re uagliune quanne sciuòchene (Uldema puesia).

Quanta tristezza in quelle strade senza gente, mute, strette l’una all’altra come per proteggersi, che pure si porta nel cuore e per le quali ritornerà: Nun ng’éja nesciune che me rice /”viene”./Stràtere senza gende/casera ammundunète,/ éja vive sule lu fume che èsse ra li tìttele/scazzète ra la voria./Muséra/stanne chiù luce nd’a lu cambesande/andò li muorte parlane/chiù re chist’alde suffunnete rinde./E me ne vèche/cu lu chiande nganna./Ma sacce ca po torne (Nu ng’éja nesciune).

E quanto rimpianto per le testimonianze del passato che l’uomo non ha capito ed ha distrutto, come il secentesco convento di S. Carlo, che ha lasciato in tutti un vuoto incomabile : ije me ngandève a bré quire cummènde/…E se t’assiétte a la vianova, sopa,/e guarde nnanze a te/te siénde nu vacande rind’a l’uocchie/te siénde nu vacande rinde a l’ànema. (Chiéne Sangarle).

Della sua gente ne ha compreso e trasmesso le sofferenze, la dignitosa povertà re chi stéje citte pe nu nghiange, di chi non parla perché non è ascoltato: nesciune re ddèje rènzie/nesciune se ne cura./Parlane sottavòce/forse pe la vrehogna r’esse niénde/forse pe paura re rè mbicce./Ma lore nu ru sanne/ ca sonne nète pe gì mbaravise (Cambène).

Dello stato di precarietà e di miseria della condizione contadina ne porta la pena ed il disagio: li cogli ne Le meteture. Gende re la mundagna/che se purtèva appiérse la mesèria/uomene ammundunète ra na parte/ra quante Dije r’avéva miste ndèrra. Uomini impotenti, che aspettano a la Portanova il “padrone” che li “ingaggi”: i volti cotti dal sole, gli occhi tristi, le mani nervose; li senti nella Terra r’alde: un groviglio di uomini, donne in scialli neri, catene ai piedi, occhi bassi, per la piazza verso il carcere. Hanno raccolto neppure mezzo quarto di lampascioni a Palino, in terra d’altri.

Nelle nostre orecchie, e prima ancora nel cuore sono le urla disperate della moglie di Cola il fornaio, lui malato, cinque figli, la meta appeccèta sul piano di S. Carlo: in un bagliore si consuma la paglia che avrebbe dovuto dare pane ad una famiglia per un anno. Currìte tutte quande   svacandète la chiazza…proprije la sera re la festa re Sand’rocche…/Scète a verè ru ffuoche/ma vuldateve,/huardete rinde a chir’uocchie spalanghète. Sule tanne capite cchè éja /la resperazijòne…(La méta appeccèta). Ed è il 16 agosto, festa di S. Rocco. Che bella festa per quella famiglia!

E così il Marchitelli ti porta a riflettere sulla condizione contadina nel Sud, sulla sorte di questo popolo di formiche per il quale l’inferno è su questa terra, come dice Tommaso Fiore.

Il poeta è con loro, con i vinti (Stoche cu cchi perde). Ma mai disperato perché il suo animo ha un punto fermo cui guarda: Dio, colui che tutte pote e che renderà giustizia a coloro ai quali gli uomini l’hanno negata. Nu nde spacemendè, sperème a Ddije: la fede illumina anche la scruija. Fors’eja accussì quanne une s’abbìja: nun nzéje se anchine o se ascinne/nu viagge senza remore. /Ciénde o mill’anne lu tiémbe nu ngonda, passe miézze a meliarde re stelle/fino a arrevè a na luce che aspetta. (Scruija).

Entra con delicatezza nell’interno delle mura domestiche per esaltarne la tranquillità, la gioia della povertà, gli affetti domestici, il tepore del camino, i tempi in cui cu poche e cu nu paste poveriérre erene tutte ricche. (Com’era fàcele a stè nziéme).

Lo sorprende sovente la nostalgia che anni e disinganni acuiscono e che diventa bisogno di confondersi fra la sua gente e condividerne il sentire, vularrije stè pur’ije/miézze a llore/aprì lu core/E cchiange/E restè sotte a l’acqua/Vagnarme affine a l’anema. (Vernedì sande).

La sera della vita che avanza e le esperienze lo inducono a riflettere sul valore della vita stessa, nu riéle che n’ève fatte Dije, delle opere dell’uomo e sulla fugacità del tempo: Mò èra stammatina/e ggià s’éja fatte nòtte:/Ma se te vuolde e vvire/tutta la strèta ch’éje lassèta addrète/come sì ggiute nnanze/pe ffè luce/come éje semmenète/a mmène chiéne/quére che mò crescènne l’alde cuògliene,/pe tté nunn’éja la scruija,/pe té,/mò te n’addune,/éja sèmbe juorne:/tande la nòtte éja chièra e ttande so re stélle (Mò èra stammatina).

E ricorda con gratitudine Lenarde il quale a lui uaglione diede saggi consigli, che diventarono il codice della sua vita, ispirata all’onestà, alla rettitudine e al senso del dovere: Nun d’éja scuraggè,/se fatte òme /te tocca la fatiha/te tocca pure a ttè re stè citte/te tocca re veré chire che arruobbene/e sonne respettète/sule pecché cummànnene….camina sèmbe dritte/…E sse te firme a bbré/com’éja nu scacche russe nd’a ru ggrène/…se sèje capì nd’a l’uocchie nu crijature/…éja tanne che capisce/ca proprie queste ccose/sonne ru ssèle giuste re la vita. (Ru ssèle giuste).

L’arte matura e si perfeziona con gli anni, l’espressione sempre cordiale si fa più particolarmente comunicativa nelle ultime liriche della sua vita.

Marchitelli è un poeta dialettale di grande sensibilità e perciò la sua è una poesia originale, bella, umana, ispirata da genuini ed autentici affetti e valori, oltre che da un amore costante per la sua terra natale.

Una poesia di memoria che sa documentare costume, tradizioni e storie d’altri tempi, ma anche di attualità, ricca di voci, di colori e profumi quali sono quelli del Subappennino Dauno.

In essa natura, ambienti, momenti e figure umane si caricano di grandi suggestioni che scavano nell’animo e suggeriscono forti commozioni. Anche la satira e l’umorismo di tante sue liriche (La merecina, Lu cumizzie), spesso animate anche dalla sagacia degli animali, veicolano messaggi di ampia risonanza umana.

Il vocabolario del dialetto santagatese

Il Vocabolario del dialetto santagatese meritò numerosi giudizi positivi, tra cui quelli dei proff. Manlio Cortellazzo dell’Università di Padova, Max Pfister dell’Università di Saarlandes (Germania), Gerard Rholfs ordinario delle Università di Monaco e Nutingen (Germania), Aldo Vallone, critico letterario, ordinario di Filologia moderna dell’Università di Napoli, Carlo Muscetta, ordinario dell’Università di Catania e docente alla Sorbona; Mario D’Elia, ordinario di Dialettologia dell’Università di Lecce.

Il grande studioso di dialetti, Gerard Rolfs, scrisse al Marchitelli: ”Non capita spesso che un architetto prende il coraggio e si accinge  alla grande fatica di costruire l’edificio di un vero vocabolario della sua parlata natale….Le faccio i miei complimenti per tale coraggio e la riuscitissima impresa…il suo eccellente ed utilissimo Vocabolario riempie magnificamente una lamentevole lacuna nella Puglia settentrionale”. E Carlo Muscetta “unico nel suo genere…un ottimo lavoro che, col soffermarsi sui monumenti del suo paese e sulle attività culturali, assume una fisionomia quasi enciclopedica”.

Il prof. Mario D’Elia sottolineava ”…le attestazioni della parlata di Sant’Agata di Puglia rappresentano una fonte preziosa per la conoscenza del patrimonio dialettale della storia culturale della Sua terra. La fraseologia…consente di definire i molteplici usi e le varie connotazioni semantiche che sono necessarie ai fini della ricostruzione delle vicende storiche della parola”.

Nel campo della ricerca linguistica il Vocabolario di Gino Marchitelli costituisce effettivamente una delle prime e più significative opere finalizzate al recupero del dialetto dell’area subappenninica. Richiese oltre sette anni di ricerche e di studio ed il contributo dei suggerimenti e della collaborazione di amici sanatagatesi, fra cui il compianto Enzo Contillo, che lo spronerà all’aggiornamento ed alla ristampa, fornendogli il primo nuovo gruppo di parole. L’opera è composta da oltre novemila voci, proverbi, ricca fraseologia, filastrocche, note storiche e di costume.

Lo precede una lunga introduzione in cui l’autore dà al lettore informazioni sulla fonetica, la grafia, le regole fisse della sintassi, le eccezioni.

L’autore lo dedicò a Sant’Agata di Puglia…con l’amore incondizionato di sempre.

Mi onora la sua decisione di lasciare a me, credendomene degna, tutto il materiale per l’aggiornamento e la ristampa, fiducioso di vedere dal cielo un giorno la sua opera più ricca e al passo con la cultura linguistica. Fatica per me non facile, che spero di portare degnamente a compimento.

Ci chiediamo perché Gino Marchitelli ha voluto scrivere in dialetto santagatese. La risposta è sua: “nella volontà di limitare al di qua del familiare orizzonte la conoscenza della mia fatica c’è un umile atto di amore verso questo paese, verso questa terra che mi ha visto ragazzo, che ha lievitato i miei sogni e che è depositaria delle memorie più care”, e nella speranza di ricordare nel calore e nel suono della lingua “madre”, soprattutto a chi è stato costretto ad emigrare, persone, fatti, affetti e luoghi della loro terra e della loro fanciullezza.

Alla luce di questo grande messaggio di umanità e di amore a noi, oggi, tocca andare “oltre”. 

Dora Donofrio Del Vecchio

 

Com’èra fàcele a stè nziéme 

Se pènze a ccèrte sére cu la néve.

Rafòre tutte citte

nuje a ru calle re lu fucurile,

l’addòre re re llèvene appeccète

una cchiù vvérde cu la scuma a ffrìscule,

la vrèscia ra nu quarte

a la hratiglia cu lu baccalà. 

Fòre a lu hrère vattene li piére

Pe scululè la néve:

qualcheùne vène pe stè nziéme a nnuje,

manghe adda tuzzulè

basta vuttè la pòrta pe trasì.

Strengènnene nu pòche

Éja pronde n’aldu pòste pe chi arriva

Éja n’alde cu cchi sparte la serèta. 

Pe nu scunzè lu cìrcule

attuorne a lu ceppone

nu tavuline

fatte cu dduje piére

cu l’alda ponda

sop’a la cucina

éja alzète e ppuoste mmiézze. 

Po’ stise lu musèle cu la frangia

E miste re ffurcine e li becchiére

Arriva la spasètta a ggire blu

chiéna re baccalà

spezzète a scaglie janghe e abbrustulute

nziéme a r’alive nèvere

arrepecchète e llustre

già ra Natèle rinde a la fesina.

R’uoglie ferrète re lu stagnungiérre

Culète a ggrascia cu lu mesuriérre

Se squaglia acchiène acchiène e ffèce gialle

E ggià a vverérle

Sèpe re trappite.

Ru ppène a ffèrre hròsse

Éja spenziète

E ssòp’a re reggiòle

Come ndròne

Aspetta l’arecciule cu lu vine. 

Sére re viérne,

sére cu la néve,

tanne cum’èra fàcele a stè nziéme:

cu ppòche e ccu nu paste pòveriérre

èrene tutte ricche.

(da G. Marchitelli, Piézze re ciéle, Edigraf, Foggia 1991, pp. 52-53) 

Tèrra r’alde

Erene na recina re frustiére

ngappète ra li quarte re Paline.

Uomene ammanettète

fémmene arravugliète nd’a lu scialle

purtète a ffila

e tutte a cchèpa vascia

pe la chiazza. Ra la matina priéste

facènne cepurrine

méne aggranghète nd’a la terra fredda

uocchie arrussète ra la voria a raspa,

n’avèvene scavate

si e nnò nu miézzequarte.

Manghe abbastande pe accattè ru ppène

pe llore e ppe re vvocche che aspettàvene

condanne re stè sazie

pe nu iuòrne.

(da G. Marchitelli, Piézze re ciéle, Edigraf,Foggia 1991, pp. 27-28) 

Re mmène toje

Re mmène toje, mamma, quére mmène

Che pe la prima volda s’appusciàrene

Spussète

Sopa a re ccarne mije,

quere mmène

che m’hanne accarezzète

che m’hanne arravugliète

che m’hanne cunnelète,

quere mmène

che m’hanne accumbagnète

che m’hanne salutète

che m’hanne beneritte

che m’hanne scritte tante e tanda volde

che m’hanne cunfurtète

ch’hanne assuchète làhrene e serore;

re mmène toje ,mamma, che chiuriérne

l’uocchie r’Andeniucce e che scettarne

nu pùneje re terra,

lu core tuje restrutte

sop’a quire taùte c’ascennéva,

re mmène, quere mmène che strengiérne

re mmène mìje quanne quera notte

chiangiémme nzieme chi n’aveva rète

tutte lu core suje, fatehanne

na vita sèna pe la chesa nostra,

re mmène toje, mamma,

re mmène toje chiéne re fatihe

ch’ije chiangènne t’agge accarezzète

nunn’hanne strette chiù re mmène mije

nun m’hanne ritte

quere che tu a parole nu recive,

e quante agge sendute

ca n’alde munne attuorne me caréva,

quanne affucanne ije t’agge chiamète

e quere mmène fredde agge vasète,

m’eja sembrète

ca quera crona angora se muvesse

ca tu prehasse angora e che recisse

cu n’uldeme respire:

“Te raccumanne figlieme, Signore”.

(da G. Marchitelli, e ije torne, Sant’Agata di Puglia 1973, pp. 46-47)

 

 

[1] La presente relazione è parte della conferenza tenuta dall’autrice nel convegno di studio “Gino Marchitelli. Il ricordo a dieci anni dalla scomparsa”, organizzato dalla Pro Loco “Pierino Donofrio” con il patrocinio e contributo del Comune di Sant’Agata di Puglia, il 10 agosto del 2006. Il lavoro rientra nelle attività di studio del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, di cui l’autrice è socia fondatrice e vicepresidente.

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